PEOPLE | 24 Nov 2016

Alessandro Micheli: lo sviluppo del Paese passa per i dati, e per la nostra capacità di usarli

micheli44 anni, romano: il piglio di chi sa bene cosa vuole, l’atteggiamento deciso di chi sa come fare per ottenerlo e l’umiltà di chi è abituato a darsi da fare in prima persona. Questo è – in breve – il ritratto di Alessandro Micheli, Presidente dei Giovani Imprenditori di Confcommercio e consigliere incaricato per l’innovazione e le nuove forme d’impresa.

Giovani, innovazione e nuove forme d’impresa: temi centrali per il Paese che – non a caso – convergono verso una sola figura che ha il delicato compito di guidare gli sforzi della principale associazione di rappresentanza d’impresa italiana in un terreno particolarmente complesso fatto di opportunità che – se non colte – rischiano di trasformarsi in minacce.

Si è recentemente conclusa la nona edizione del forum annuale dei giovani di Confcommercio, di fatto interamente dedicata ai temi della Sharing Economy e di Industry 4.0: il digitale merita tanta attenzione?

In questo momento discutere di questi temi è un vero e proprio imperativo categorico: non è tanto il fatto che il digitale meriti attenzione, quanto il fatto che tutta l’economia si sta muovendo in uno scenario d’integrazione per il quale l’information technology si porta con sé un insieme di strumenti dai quali non si può prescindere: ma sono, appunto, strumenti. Troppo spesso facciamo l’errore di considerare il digitale come qualcosa di altro rispetto alla nostra realtà quotidiana, quando invece dovremmo ragionare in un’ottica d’integrazione. A volte penso che il giorno in cui il digitale avrà fatto davvero breccia nella nostra società, nella cultura e nell’economia sarà quando smetteremo di parlarne perché staremo – finalmente – ragionando in maniera nativamente digitale.

Ragionare in modo “nativamente digitale”: le imprese italiane sono in grado di farlo?

Non è questione di essere o non essere in grado. I nostri imprenditori lo sono certamente; il vero problema è far arrivare le aziende a quel livello di consapevolezza sufficiente a far sì che si rendano conto che devono farlo. Troppo spesso, infatti, manca consapevolezza delle opportunità portate dal digitale, ed ancora di più dei problemi nei quali si incorre non cogliendole. E manca un sistema di competenze diffuso, nelle imprese come nella PA. E mancano infrastrutture. Insomma: le nostre aziende possono trarre grandi vantaggi dal digitale, ma serve una cultura condivisa ed azioni di sistema incisive. Negli anni ho visto la consapevolezza dei giovani imprenditori aumentare esponenzialmente: ora servono azioni di supporto e sostegno che agendo sulla consapevolezza acquisita la trasformino in progetti e linee d’azione.

Il piano Industry 4.0 va in questa direzione?

Il piano Industry 4.0 – del quale a dire il vero dobbiamo ancora avere una declinazione compiutamente articolata – è un punto di partenza. Ma non dobbiamo mai scordare che il nostro Paese non è un Paese a vocazione prettamente industriale: è di fondamentale importanza quindi che il concetto di industria 4.0 venga declinato come modello di sviluppo anche e soprattutto a supporto delle piccole e medie imprese che attraverso il digitale possono guadagnare competitività sul mercato.

Ad esempio?

In primo luogo supportando – come ho già detto – lo sviluppo di una cultura d’uso diffusa del digitale, e quindi agendo perché le aziende che operano nel commercio, nel turismo, nei trasporti, nella ristorazione capiscano come sfruttare al meglio quegli stessi operatori che oggi spesso vengono vissuti prevalentemente come una minaccia. Non dobbiamo dimenticare che tutti gli operatori che stanno ridisegnando il nostro mondo lavorano sui dati, e questi dati altro non sono che quelli derivanti dalla conoscenza dell’utente. Ma l’utente è in realtà anche e soprattutto cliente delle nostre aziende. Non è possibile – quindi – che il modello di business di quelli che qualcuno chiama i padroni della rete funzioni creando valore solo per loro. Il modello di creazione del valore deve essere condiviso e produrre benessere anche sul territorio, anche perché i dati derivano da transazioni reali, da acquisti, da scelte che sono tutt’altro che virtuali e che vedono ovviamente coinvolte le aziende. Solo così si sviluppa un sistema sostenibile.

Se Booking.com affitta una stanza d’albergo lo fa gestendo dati ed informazioni sul cliente, ma la stanza deve esistere ed essere in buone condizioni. Se Tripadvisor suggerisce un ristorante piuttosto che un altro, volendo lasciar fuori da questa conversazione l’attendibilità di alcune recensioni ed il loro reale valore, lo fa gestendo le informazioni derivanti da migliaia di transazioni, ma in ultima analisi i due ristoranti devono esistere davvero. Ciò ci porta ad una considerazione generale: è vero che questi attori sono specializzati nella gestione dei dati, ma pur con tutti i big data oggi disponibili la dimensione di servizio si sviluppa al di fuori delle piattaforme e vede protagoniste le nostre aziende. Questo non possiamo e non dobbiamo scordarlo, altrimenti rischiamo ancora una volta di invertire l’oggetto dell’azione (il ristorante, il taxi, la stanza d’albergo) con lo strumento per compiere l’azione (la piattaforma di gestione delle prenotazioni). Ma questo vuol dire che le aziende italiane devono comprendere bene come interagire con questi attori e come sfruttarli al meglio.

Vuol dire anche che le aziende italiane devono acquisire una vera e propria cultura del dato?

Questo passaggio è fondamentale. Oggi la tecnologia consente ad ogni azienda, anche alla più piccola, di fruire di prodotti e servizi di data management sino a pochi anni fa a disposizione soltanto dei grandi attori. Grazie ai sistemi attualmente esistenti anche un negozio di piccole dimensioni può farsi pubblicità on-line con un livello di complessità impensabile sino a pochi anni fa: può profilare l’utenza, identificarla, raggiungerla con precisione chirurgica.

Applicazioni come il geomarketing – che si basa su sistemi GIS disponibili in modalità cloud – oggi non sono più riservate ad attori di grandissima dimensione, ma anche ad una semplice PMI, che può trarne grandi vantaggi. Sino a qualche anno fa il CRM richiedeva installazioni complesse e costose; oggi esistono CRM in cloud utilizzabili da qualsiasi azienda. E lo stesso vale per i sistemi ERP o MRP.

Insomma: oggi nel sistema di competenze di una qualsiasi azienda non può mancare il set di competenze inerenti la gestione di basi dati che, per quanto semplici da utilizzare, richiedono una cultura del dato sconosciuta sino a pochi anni fa. Non basta disporre di un software: serve garantirsi sul fatto che tale software sia utilizzato correttamente; il che vuol dire il più delle volte fare in modo tale da comprendere bene che tipo di dati gli si danno in pasto, e come leggerne le risposte.

La cultura del dato quindi come chiave di sviluppo?

Assolutamente sì: se è vero, com’è vero, che viviamo nell’era dell’informazione, dobbiamo comprendere tutti – dai grandi player internazionali alle aziende più piccole – che il successo dell’economia di questo paese dipende dalla nostra capacità di conoscerne le caratteristiche. Le caratteristiche dell’utenza, del mercato, del prodotto. E tali caratteristiche sono nascoste e codificate nella quantità sempre più ingente di dati che gestiamo sugli utenti: la capacità di leggere tali dati, quindi, rappresenta una competenza chiave per essere competitivi su un mercato sempre più difficile.