La distanza tra la Terra e la Luna. Percorsa circa 1250 volte. Andata e ritorno. Questa sarebbe, viaggio più viaggio meno, l’altezza di una pila di carta che dovesse contenere tutte le informazioni pubblicate su Internet ogni anno. Un numero che, ovviamente, aumenta anno dopo anno. Non serve molto altro per afferrare il significato del termine “Big Data”: quella grande quantità di dati (appunto) prodotta in rete e caratterizzata, oltre che dalla quantità, cosa che appare evidente sin dalla definizione, da almeno altre due caratteristiche distintive.
- In primo luogo, l’impressionante varietà di tipologie diverse, perché a pensarci bene trovare qualcosa che accomuni un tweet scritto in Italia ad una quotazione di borsa di una società francese, piuttosto che la temperatura rilevata da una centralina per il monitoraggio atmosferico di Bari al punteggio totalizzato a Candy Crush da uno studente di Liverpool è impresa ardua.
- In secondo luogo, la grande velocità con la quale vengono registrate le variazioni dei valori di queste informazioni. Perché lo studente inglese diventa più bravo partita dopo partita, la centralina di Bari può segnalare le variazioni della temperatura minuto per minuto, i dati di borsa si aggiornano con frequenza ancora più alta. Ed in un mondo abituato a censimenti fatti ogni 10 anni questo fatto cambia, e di molto, il modo di vedere le cose.
Volume, Velocità e Varietà sono quindi alcune tra le principali caratteristiche con le quali si deve fare i conti quando si vuole parlare di Big Data.
E sono anche quelle caratteristiche che ne determinano tanto le potenzialità quanto la complessità dell’analisi. Analizzare i Big Data infatti vuol dire usare una vasta serie di algoritmi diversi per riuscire ad identificare dentro queste masse di dati apparentemente informi ricorrenze, fenomeni che si ripetono, correlazioni non casuali. Insomma: vuol dire cercare schemi nella complessità.
Ma attenzione, perché questo non implica che dagli schemi si deduca automaticamente il senso. E ciò comporta che affidarsi ai Big Data vuol dire, in qualche modo, soffermarsi sull’analisi di cosa succede senza riflettere sul perché succedano le cose. Identificare correlazioni tra eventi apparentemente scollegati deve essere il primo passo, ma poi capire perché la famosa farfalla che batte le ali a Roma generi uno Tsunami a Tokio è ben altra impresa. E non a caso per compierla è necessario mettere in gioco strumenti di analisi complessi, come quelli basati sull’Intelligenza Artificiale, e non scordare il ricorso all’intelligenza tutt’altro che artificiale di analisti specializzati ed altamente qualificati (che sono, non casualmente, tra i professionisti oggi più ricercati). Analisti che sono quelle figure che “disegnano” gli algoritmi con i quali le intelligenze artificiali poi analizzano i dati. In altri termini coloro i quali definiscono le regole del gioco. Un gioco che non è tecnico, ma che può riguardare dimensioni economiche, sociali, finanche etiche.
Ma chi produce i Big Data? E chi se ne avvantaggia?
In sintesi: tutti e molto pochi. Andando più nei dettagli, ognuno di noi, ogni giorno, qualsiasi cosa faccia, produce dati che alimentano uno dei tanti magazzini di Big Data esistenti: ogni telefonata, ogni mail, ogni strisciata del bancomat, ogni corsetta domenicale registrata con uno Smart Watch per condividere percorso e velocità media con gli amici, ogni peregrinazione su un motore di ricerca per decidere cosa comprare alla fidanzata, ogni richiesta di preventivo per scegliere dove andare in vacanza rappresenta una goccia che riempie il mare dei Big Data.
Un mare frequentato da miliardi di pesci. Tutti pesci che usano dispositivi informatici in qualche modo collegati in Rete. Un mare sconfinato e profondo che rappresenta una meravigliosa riserva nella quale pochi, pochissimi grandi operatori sono specializzati nel dragare informazioni, leggerle, interpretarle e dar loro un senso. Un senso che genera valore. Un valore che il più delle volte è a vantaggio di pochi. Di quei pochi pescatori che vivono di ciò che producono miliardi di pesci.
La domanda centrale è quindi: ma se i pesci avessero gli strumenti per gestire il valore che oggi cedono ai pescatori? Quali i vantaggi per chi riuscirà a comprendere presto il valore dei pesci? A queste domande sarà bene rispondere presto, per non perdere l’opportunità che si cela in questa complessa e delicata fase di cambiamento.
Stefano Epifani