Dalla scrivania alle nuvole (Cloud, appunto). Da computer personale (Personal Computer) a sistema informativo diffuso e pervasivo. Un vero e proprio cambiamento di paradigma che ha influenzato le vite di tutti, ma proprio tutti gli utenti. Anche quelli – molti – che non hanno idea di cosa sia e men che meno di farne un uso quotidiano.
Quello del Cloud Computing è un cambiamento che riguarda l’essenza stessa della rete: il modello client-server. Principio per il quale quando un utente si collega ad un servizio con il suo computer (il client, appunto) è abituato a pensare che l’indirizzo che scrive nella barra del browser (http://www.google.com) corrisponda a un computer – il server – che, da qualche parte del mondo, risponda immediatamente ed invii le informazioni richieste (l’home page di Google).
Ma che succede se gli utenti che vogliono accedere contemporaneamente a quel servizio diventano molti, troppi? Succede che un singolo computer non ha sufficiente potenza di calcolo per rispondere efficacemente a tutte le richieste che gli arrivano nello stesso momento, e rallenta fino a bloccarsi. Soluzione? Usarne due. O venti. O duecento. O duemila. Contemporaneamente: in maniera tale che ognuno di essi – in base al suo carico di lavoro puntuale – dedichi un po’ del suo tempo a soddisfare una parte della richiesta dell’utente. Una vera e propria nuvola di computer (appunto) che risponde alle richieste degli utenti in maniera rapida ed efficace, distribuendo il carico di lavoro su tutti gli elaboratori che ne fanno parte. Insomma: oggi collegarsi a un sito internet non vuol dire necessariamente ricevere informazioni da un computer, ma da un numero indefinito di processori che elaborano contemporaneamente la richiesta spacchettandola su più computer per fornire la risposta nel tempo più breve possibile. Risultato? Migliaia o milioni di utenti possono collegarsi contemporaneamente alla pagina di Google, o a Facebook, o a qualsiasi altro sito internet senza alcun rallentamento nell’erogazione del servizio (alla faccia dei click-day e di chi, organizzandoli, non dimensiona bene il numero di computer da utilizzare).
Il software come servizio
Ma c’è di più: cosa accade quando la capacità computazionale e quella di archiviazione delle informazioni, grazie al Cloud, aumentano in maniera virtualmente illimitata, e la banda larga si diffonde sempre di più (…o almeno dovrebbe)? Succede che i servizi erogati possono diventare sempre più complessi, sino a consentire all’utente di usufruire dei sistemi informatici e dei programmi sviluppati in Cloud con la stessa semplicità con la quale accederebbero ad un programma sul proprio computer. Con la logica conseguenza che prendersi la briga di installare software sul proprio PC o comprare nuovi hard disk o chiavette USB per conservare il lavoro inizia a diventare sempre meno utile. È molto più conveniente, infatti, usare il software come se fosse un servizio, accedendovi quando necessario, e caricare i propri file on-line, senza sovraccaricare la propria infrastruttura informatica.
Si sviluppano così modelli di servizio come il SaaS (sigla che vuol dire proprio “Software as a Service”, ossia software come un servizio) e lo IaaS (che sta per “Infrastructure as a Service”, ossia infrastruttura come servizio), che al di là degli acronimi – che esprimono tutta la perversione degli informatici quando devono coniare nuove sigle – sono i termini tecnici che definiscono servizi che tutti usano. Dall’e-mail di Google, che con la sua interfaccia on-line ha reso superfluo il possesso di un client di posta elettronica sul proprio computer, ai sistemi per conservare i propri file in rete, come Dropbox o lo stesso Drive di Google. Per arrivare a soluzioni pensate per le aziende.
Quali i vantaggi del Cloud Computing?
Innumerevoli. I propri programmi sono disponibili sempre e da qualsiasi computer o device (come il proprio smartphone), senza che ci si debba preoccupare di installarli e men che meno di aggiornarli. Non si rischia più di dimenticare a casa o – peggio – di perdere in treno la chiavetta USB con l’ultima versione del proprio lavoro o dell’archivio clienti, con il risultato di arrivare a lavoro… senza il lavoro, e con tutte le conseguenze sulla sicurezza e sulla riservatezza delle informazioni che è facile immaginare (ma d’altro canto chi non pensa che certe cose succedano solo agli altri?). Ogni azienda può permettersi di utilizzare software complessi che, fino a qualche tempo fa, richiedevano la presenza in struttura di personale altamente specializzato. E costoso.
Quali i rischi?
Ma, ovviamente, non è tutt’oro quello che luccica. Perché, frase fatta per frase fatta, l’altra faccia del Cloud Computing esiste, e prima di mettere file e programmi tra le nuvole bisogna metterci la testa ragionando sui potenziali rischi: dove finiscono i propri file? Sulla nuvoletta “privata” realizzata dalla propria azienda (Private Cloud) o su una nuvola pubblica (Public Cloud) della quale verificare efficacia, sicurezza ed affidabilità? Quanto sono importanti le informazioni condivise? Dove vengono conservate, in Italia o all’estero? E ancora: che succede se la connessione non è sufficientemente veloce da consentire un accesso agevole a quanto disponibile on-line o, peggio, non c’è per niente? E ancora: quali sono i termini di servizio del contratto sottoscritto con il proprio fornitore (sì, quello che si firma premendo “OK” quando ci si iscrive e che normalmente nessuno legge).
Cloud sì ma con consapevolezza
Insomma: il Cloud Computing è un modello di erogazione dei servizi che apre a tutti, privati ed aziende, molte opportunità, ma richiede anche che gli utenti siano a conoscenza, oltre che delle opportunità, dei rischi che comporta. Ancora una volta, per trarre il meglio dalla trasformazione digitale, occorre prima di tutto consapevolezza. In altri termini, per entrare nella nuvola non si può avere la testa tra le nuvole.
Stefano Epifani