MARKET | 30 Ago 2018

Back2basics: Gig Economy

Il senso delle parole "Gig Economy"

Le parole sono importanti. Lo sono tanto più quando in base a esse si definiscono ipotesi, si tratteggiano scenari (magari politici), si fanno scelte (anche economiche). Per questo motivo è fondamentale attribuire a ogni parola il giusto significato. Troppo spesso, infatti, la voglia di semplificare da una parte e l’incapacità di cogliere la complessità insita nei fenomeni dall’altra portano a conclusioni sbagliate. È il caso – per esempio – della tendenza a trattare come se fossero sinonimi il concetto di Sharing Economy e quello di Gig Economy: concetti profondamente diversi ma che, per mille (pessimi) motivi, tanto legislatori di ogni bandiera e colore quanto sedicenti esperti dell’ultim’ora trattano come se fossero la stessa cosa.

Se parliamo di Sharing Economy, possiamo affermare che il concetto di economia della condivisione è articolato, multiforme e complesso, ma si basa sull’idea generale che il valore del possesso di beni, competenze, mezzi di produzione o altro possa essere condiviso – grazie a piattaforme software diffuse – tra più attori. Come dire, semplificando, che non ci serve il trapano, ma il buco che fa. Con l’ovvia conseguenza che più che essere tutti titolari di un trapano usato 10 minuti l’anno dovremmo tutti poter accedere, in quei 10 minuti, ad un trapano condiviso.

E la Gig Economy?

Il concetto di “economia dei lavoretti” nasce negli Stati Uniti dove è da sempre prassi comune che giovani e studenti “arrotondino” le proprie entrate con piccoli lavoretti, come tagliare il prato o – per citare un esempio che non si può non aver presente se si è stati negli States – vendere la limonata all’angolo di una strada. Non è un fenomeno figlio di Internet, né generato dalla rete. La rete ha tuttavia consentito di industrializzarne l’approccio grazie a piattaforme software sviluppate per mettere in contatto domanda ed offerta.

Tuttavia la disponibilità di sistemi di incontro strutturati tra domanda ed offerta, unita ad un mutato scenario di contesto, ha creato una discrasia significativa: cosa succede quando un modello concepito in un determinato contesto economico e con determinate caratteristiche si sposta verso un contesto del tutto diverso? Cosa succede se il lavoretto fatto dallo studente di college nel week end diventa o rischia di diventare una fonte di introiti di tipo strutturale? Cosa succede se il concetto di lavoro saltuario rischia di diventare un surrogato pericoloso di lavoro flessibile?

Succede che qualcosa comincia a non funzionare. Tanto che non solo in Italia, ma negli stessi Stati Uniti, il significato stesso del termine Gig Economy sta progressivamente cambiando.

Ed ecco che i lavoretti rischiano di non essere più solo quelli che  svolge qualsiasi studente di college per pagarsi la vacanza, ma quelli ai quali si è costretti a ricorrere quando il “lavoro”, quello vero, non si trova più. Ed ecco che la Gig Economy diventa quella con la quale si indicano non più soltanto i “lavoretti occasionali”, ma tutti quei lavori che non riescono ad esprimere una sufficiente tutela nei confronti del lavoratore al punto da richiedere, nella definizione, l’adozione di un diminutivo del termine lavoro.

Nel regolamentare l’economia dei lavoretti, quindi, è importante capire se si sta cercando di dare un sistema di regole e tutele a un’attività svolta “per arrotondare” oppure se quell’attività svolta per arrotondare non rischi di trasformarsi in qualcosa d’altro. E farlo è propedeutico anche al capire che tipo di tutele si debba cercare, perché se è lecito e doveroso pensare che anche nella consegna di una singola pizza chi svolge l’attività debba essere retribuito e tutelato, la ricerca di rapporti di dipendenza o subalternità rischia di stravolgere il senso di un modello rendendolo insostenibile. Insomma: la Gig Economy vive oggi nel pericoloso limbo che confonde il concetto di tutela da quello di stabilizzazione.

Cosa hanno in comune, quindi, economia della condivisione ed economia dei lavoretti?

Nulla, se non che entrambi i fenomeni condividono il ricorso a piattaforme software che regolano e gestiscono i rapporti tra le parti. Non a caso si parla sempre più spesso di Platform Economy: anche in questo caso cercando di mettere in un unico calderone fenomeni che poco hanno in comune se non il ricorso – appunto – alla rete come strumento di contatto.

Come tentare di accomunare il modello di business (e le conseguenti normative) di una società di consulenza e quello di un negozio di vestiti perché entrambi usano lo stesso software di contabilità. E quando questo ragionamento viene fatto da chi dovrebbe normarli entrambi il problema è serio.


Stefano Epifani