SOCIETY | 6 Dic 2018

Back2Basics: Sharing Economy

Il senso delle parole "Sharing Economy"

Sharing Economy: economia della condivisione. L’assunto di base è (apparentemente) semplice e può essere sintetizzato con una domanda: ci serve il trapano o il buco chi lo fa?

I quasi 15 milioni di felici possessori di trapano italici lo usano – in tutta la loro vita – per una media di 30 minuti e 20 buchi. In pratica quasi due euro a foro. Quindi se in ogni condominio si mettessero d’accordo e utilizzassero un “trapano condiviso” (il trapano condominiale?) si ottimizzerebbero le spese del bilancio familiare, si potrebbe disporre di un trapano migliore, e così via. Ma si sa, un uomo non si sente un vero uomo senza il suo trapano ben riposto nella cassetta degli attrezzi, e poco importa se per infilare uno stop nel muro ne esce con un buco che neanche il tunnel della Manica. Il problema è che se lo stesso discorso viene esteso alle aziende e ai mezzi di produzione, è evidente come la portata del tema sia molto più vasta del già vasto ego del maschio italico trapanomunito.

Si pensi alle aziende agricole italiane di piccola dimensione, che hanno spesso mezzi sovradimensionati rispetto all’uso che ne fanno, con il conseguente aggravio sui conti che rischia talvolta di portarle al fallimento, ma che non riesce a far superare il muro culturale che impedisce di condividere la trebbia con il vicino dell’azienda accanto.

Condividere: dov’è il problema?

Insomma: l’idea che condividere un prodotto o un servizio rappresenti un buon modo di ottimizzare i costi è ovvia e ottima, ma la sua traduzione in pratica è molto, ma molto più complessa di quanto non possa sembrare.

  • Nel metodo, la dimensione cooperativa rappresenta di per sé una risposta concreta. Risposta che si basa su un modello organizzativo e una dimensione culturale solidi e strutturati. Risposta che – peraltro – fornisce una soluzione di merito a molti dei temi che la Sharing Economy solleva.
  • Nel merito, appunto, si pongono problemi molto pratici: gli utenti condividono la risorsa insieme o in tempi diversi? Come fanno a mettersi d’accordo su chi deve utilizzarla? Chi la mette a disposizione? Come viene pagata? Chi la fa funzionare? Chi ne è responsabile? Chi gestisce i dati necessari e chi li sfrutta? E per farci cosa? Tanto per citarne alcuni.

Tutti problemi che accomunano la condivisione di una stanza inutilizzata del proprio appartamento con una pressa industriale, con le ovvie differenze del caso. Tutti problemi, però, che possono essere affrontati anche grazie alle tecnologie di rete. Non è un caso se la Sharing Economy, nota nella sostanza dai tempi del baratto e diffusa sin dal Medioevo con le comunanze delle zone rurali italiane, oggi in rete trovi nuovo senso, nuovi spazi e nuovi significati.

Ma come sempre succede il rischio che una questione apparentemente semplice si complichi a dismisura è concreto. Un po’ perché ci piace complicare le cose, un po’ perché passare da una comunanza nella quale si condivide un forno tra qualche centinaio di compaesani tutti più o meno reciprocamente imparentati a un sistema che mette in condivisione risorse con centinaia di migliaia di utenti del tutto sconosciuti e sparsi per il mondo non è proprio banale. E inevitabilmente, un po’ per moda un po’ per ignoranza, si finisce con il definire come Sharing Economy (e talvolta – vedi la situazione italiana – normare) fenomeni che con la Sharing Economy non hanno nulla, ma proprio nulla a che vedere.

Sharing Economy o no?

Un esempio? BlaBlaCar, noto servizio che consente il car pooling (ossia la condivisione dei costi di trasporto dell’autovettura guidata da un privato che si sposta nel tragitto casa-lavoro), non ha nulla a che vedere, in termini di merito e di metodo, con sistemi come MyTaxi o AppTaxi, in uso ai tassisti. Se il primo può far riferimento a un sistema di collaborative consumption (consumo collaborativo) di una risorsa,  che generalmente è una forma di Sharing Economy, i secondi non sono altro che la riedizione in salsa digitale di un servizio prima erogato attraverso altri canali – il Radiotaxi – che con la Sharing Economy non c’entra nulla. E ancora, passando dal car sharing al social eating: a parità di servizio offerto e di piattaforma utilizzata sono da operare distinzioni sul come esso viene offerto, perché condividere episodicamente i costi della cena con un gruppo di amici o perfetti sconosciuti è cosa ben diversa dall’offrire sistematicamente, ogni sera, un servizio di home restaurant. Se anche in entrambi i casi si usa la stessa piattaforma (ad esempio Gnammo) nel primo caso è Sharing Economy, nel secondo rischia di essere ristorazione abusiva.

Insomma: cercare di accomunare servizi che in comune hanno solo il fatto di ricorrere a una piattaforma digitale per collegare utenti tra loro non solo è sbagliato, ma è concettualmente pericoloso, perché crea una generalizzazione che, se estesa a una dimensione normativa e a un ragionamento più amplio che riguarda la tutela del lavoro, le dimensioni di responsabilità degli operatori, la tutela del consumatore, non può che produrre distorsioni. Moltissimi operatori di servizio oggi vengono considerati in modo del tutto inappropriato attori della Sharing Economy, e come tali considerati anche sotto il profilo giuridico e fiscale.

Quali impatti della condivisione sull’economia?

Tuttavia gli impatti della Sharing Economy sull’economia e sulla società sono ancora minimi rispetto al potenziale sviluppabile da una economia della condivisione che – anche basandosi su tecnologie come Blockchain e, perché no, approcci che facciano tesoro della dimensione cooperativa con tutte le sue specificità – promette davvero di differenziarsi in maniera evidente da quella che qualcuno ha già definito Gig Economy, quell’economia “dei lavoretti” che lungi dallo sfruttare le potenzialità delle piattaforme digitali per sviluppare un ecosistema che consenta di riconcepire il concetto di possesso, non fa altro che basarsi sullo sfruttamento del lavoro.

Certo è che la questione è centrale e che la sua soluzione passa per la capacità di tutti gli attori coinvolti (istituzioni, sindacati, strutture datoriali, enti di rappresentanza) di identificare strade che, pur non penalizzando gli operatori tradizionali, non finiscano per rallentare lo sviluppo dei nuovi attori: situazione che non favorirebbe altro che gli operatori internazionali che, forti di sistemi e modelli normativi spesso più vantaggiosi, finirebbero per trasformare il nostro Paese in una colonia. Danneggiando aziende vecchie e nuove. Insomma, quadrare il cerchio non sarà semplice, ma è certo che non possiamo permetterci di rimanere fuori dal gioco, perché – come diceva Enrique Ernesto Febbraro – quando piove divido l’ombrello, ma se non ho l’ombrello divido la pioggia.

Stefano Epifani