Sul tema delle tecnologie digitali l’Italia – ce lo dicono i dati – non è esattamente tra i Paesi più reattivi. E così succede che mentre parliamo di Industry 4.0 e rivoluzione digitale ci dobbiamo leccare le ferite degli ennesimi poco confortanti risultati di un indice DESI che, neanche troppo sommessamente, ci ricorda che siamo appena sopra la Romania, la Bulgaria e la Spagna: in sostanza venticinquesimi in Europa. Su 28 Paesi.
Il che, tra le conseguenze da tenere in considerazione quando si sviluppano strategie di Digital Transformation, genera un vero e proprio bias cognitivo che va tenuto in considerazione, soprattutto quando si parla di quelle che consideriamo “tecnologie emergenti”. E tra le più emergenti tra le tecnologie emergenti i Big Data, oggi, occupano un posto d’onore. Non c’è progetto che non li citi, non c’è strategia che non li consideri, non c’è settore che non li prenda in considerazione.
Peccato che, uscendo dalla prospettiva interpretativa di chi guarda al mondo dalla quartultima posizione, ci si renda conto che i Big Data proprio “emergenti” non lo siano più, essendo ormai “emersi” già da un po’. Da così tanto tempo, in effetti, che da un paio d’anni sono persino usciti dalla famosa curva di Gartner per le tecnologie emergenti.
“Ciò che sta succedendo – spiegava già due anni fa Betsy Burton di Gartner (tra gli autori del rapporto) – è che i Big Data si sono mossi rapidamente oltre il picco delle Inflated Expectations e sono entrati a pieno titolo nelle nostre vite, condizionando per altro molti hype cycle di altre tecnologie”. Insomma: altro che tecnologia emergente!
Così, se le prospettive possibili della tecnologia viaggiano ormai su una dimensione globale, dobbiamo sempre ricordare che le loro applicazioni concrete dipendono dalla declinazione della prospettiva globale sulla cultura ed il contesto locali. Una specie di “Think local, Act global” in salsa digitale. In altri termini: se si implementa un progetto basato sui Big Data i problemi quasi mai verranno da questi ma da quanto le organizzazioni sono pronte a capirli e ad implementarli. Un fatto, questo, che ogni progettista serio conosce bene (o quanto meno dovrebbe conoscere bene).
Ciò, naturalmente, genera un problema secondario non indifferente: bisogna fare molta attenzione alle così dette best practice, vera e propria croce e delizia del marketing. Delizia per il marketing, perché dimostrano che qualcosa è possibile; croce per tutti gli altri, perché inducono la falsa convinzione che oltre ad essere possibile quel qualcosa sia facile da fare. Spesso troppo facile. E fanno scordare che se qualcosa è possibile in un contesto non è detto che lo sia con altrettanta facilità in un altro. Altro contesto che potendo contare su una dimensione tecnologica che (in teoria) è la stessa in tutto il mondo, vive però dinamiche organizzative, culturali e di mercato profondamente diverse e che dipendono fortemente dal contesto locale.
E così, volendo guardare al bicchiere mezzo pieno, ci si rende conto che piuttosto che guardare ai successi degli altri – che dipendono da situazioni di contesto spesso irreplicabili – molte volte conviene guardare agli altrui errori. Una sorta di analisi delle best practice al contrario insomma, perché in fondo se ognuno fa bene a modo suo tutti, in genere, tendiamo a sbagliare nello stesso modo. In definitiva: se le best practice ci dimostrano che qualcosa è possibile per capire come farla conviene guardare agli “epic fail”: i grandi fallimenti. E visto che i Big Data non sono più una tecnologia emergente nemmeno secondo Gartner, il vantaggio è che di errori da non fare se ne conoscono tanti. Errori dai quali, chi vuole implementare un progetto Big Data, ha molto da imparare.
Quali sono gli errori più comuni? Di seguito un elenco in ordine sparso:
- Partire dalle tecnologie. Viste le premesse non poteva che essere il primo punto della lista. Innamorarsi della tecnologia, magari l’ultima o la più avanzata disponibile, non è mai un buon punto di partenza. Scordare che un progetto Big Data riguarda prima di tutto l’organizzazione, il mercato ed i processi – ossia gli elementi che i dati li producono – è sempre il miglior modo per fallire.
- Non entrare nella “black box”. Talvolta dimentichiamo che il punto non è rappresentato tanto dalla disponibilità di Big Data, ossia quei dati veloci, vari e quantitativamente rilevanti che la rete mette a disposizione, ma dal modo in cui tali dati vengono analizzati. Non basta quindi dire “sto usando tecniche di analisi Big Data” per mettersi il cuore in pace. Bisogna avere il coraggio di rompere la “black box” che si cela dietro questo termine e comprendere quali metodologie di analisi vengano applicate e come. Per farla breve: non tutti i Big Data sono uguali. E la scelta della metodologia giusta non è esattamente secondaria rispetto al successo di un progetto.
- Sbagliare gli obiettivi. Troppo spesso succede che una tecnologia venga implementata perché va di moda piuttosto che perché serva a risolvere un problema reale e concreto. Ma quando si parte dalla soluzione piuttosto che dal problema si rischia di non centrare bene quest’ultimo e, di conseguenza, di non dedicare il giusto tempo alla definizione degli obiettivi. Così, invece del modello SMART – che ricorda come gli obiettivi debbano essere specifici, misurabili, raggiungibili (achievable), rilevanti e temporalmente definiti – ci si ritrova con soluzioni in cerca di problemi che non centrano gli obiettivi perché, partendo dalla soluzione, ci si scorda di definire il problema. E quindi mancano l’obiettivo (che spesso proprio non c’è).
- Assenza di una “data strategy”. Senza una buona strategia non si vincono le guerre. Figuriamoci se si possono gestire i dati di un’organizzazione complessa. Sviluppare un progetto basato su modelli di Big Data Analysis non è semplice, è impegnativo ed è articolato. Raramente ci si trova di fronte a progetti di successo se questi non partono da un’analisi complessiva della strategia con la quale l’azienda gestisce i propri dati (e quelli di cui ha bisogno ma che non gestisce direttamente: si pensi alle informazioni provenienti dai social media). Cercare risposte specifche piuttosto che soluzioni complessive talvolta implica non trovare né le une né le altre. La mancanza di una visione d’insieme della propria strategia di gestione dei dati è fatale per qualsiasi progetto che contempli il ricorso a strumenti di Big Data analysis.
- Non rompere le scatole. I silos di informazione presenti nelle aziende non sono solo il risultato di una mancata integrazione nei sistemi informativi. Sono – più spesso – il risultato della volontà dei diversi “corpi” che costituiscono l’azienda di mantenere il dominio della propria informazione condividendola il meno possibile con il resto dell’organizzazione. Alla faccia della condivisione, ancora oggi troppo spesso il management parte dall’assunto che sapere è potere, e che se qualcosa si sa in esclusiva si ha una posizione di vantaggio. Vantaggio personale, ma non certo dell’azienda. Insomma: considerato che l’analisi inferenziale si basa sulle inferenze tra i dati, se non si rompono le “scatole” che impediscono ai dati di essere interconnessi non si può sperare che il proprio progetto abbia successo.
Dalla mancanza di una strategia all’impossibilità di integrare davvero i dati di cui si dispone. Dalla definizione fallace degli obiettivi alla tendenza ad affidarsi alle tecnologie prima che ai modelli. Ma non basta: la storia dei fallimenti legati ai Big Data ci ha insegnato come troppo spesso si sottovaluti l’azione di marketing interno del progetto, che prevedendo un cambiamento culturale forte deve essere promosso con decisione nell’organizzazione. Ci ha mostrato come la formazione alla cultura del dato sia un elemento fondamentale per il successo. Ha evidenziato quanto sia importante considerare i dati necessari alla propria organizzazione non come oggetti statici, ma come un vero e proprio “ecosistema” che, in equilibrio dinamico, va attentamente gestito per non alterarne lo sviluppo.
Ma soprattutto ci ha insegnato come implementare un progetto di successo che abbia a che fare con i Big Data vuol dire avere il coraggio di sperimentare non solo una nuova tecnologia o dei modelli di analisi, ma un nuovo modo di pensare l’organizzazione, i suoi confini, le sue dinamiche e la sua natura. Ed è questa, in fondo, la scelta più difficile alla base della Digital Transformation.
Stefano Epifani