Chi ha più informazioni vince: vince nell’economia, nella sicurezza, nel giornalismo. Vince e basta. Ed è sempre stato così. Qualcosa è però cambiato da un certo punto in poi per quanto riguarda i dati. Diciamo dal 1970, con i primi computer prodotti industrialmente. È cambiata la velocità di raccolta delle informazioni e la quantità. Raccolta in tempo reale, immagazzinamento e archiviazione eterna, quantità illimitata. Per tutto quel che ci riguarda. Tutto quello che noi facciamo collegato ad una macchina, ad una telecamera (e ognuno di noi è ripreso a sua insaputa dalle 200 alle 400 volte ogni giorno). Tutto è registrato, conservato e utilizzato dalla politica, dall’economia, dall’esercito, dalle imprese. Utilizzato anche dal nostro capoufficio che consulta Facebook, Instagram o Twitter; dai nostri vicini, dal parroco e dal maresciallo, da chiunque voglia sapere qualcosa su di noi.
Ma cosa sono i dati?
Quali elementi possono definirsi dati? A mio avviso tutto quello che è raccolto per uno scopo e che abbia un’utilità per qualcuno. Informazioni che cambiano in base a chi le vuole utilizzare, in base al fine per cui sono state raccolte e consultate.
Facciamo alcuni esempi.
Se a richiedere informazioni sarà l’impresa che mi deve vendere un certo prodotto, questa andrà a cercare le mie abitudini al consumo, quanti soldi spendo per l’acquisizione di certi beni piuttosto che di altri. Vorrà sapere quale è il mio reddito e quale percentuale dedico al consumo, quali sono i settori merceologici verso i quali sono indirizzato. Vorrà sapere se sono abbonato a qualche pay tv o a qualche rivista, per profilare la qualità del mio consumo e così via.
Se a richiedere i dati sulla nostra persona sarà un imprenditore che dovrebbe assumerci, prima del colloquio vorrà avere, oltre al curriculum vitae, tutte le informazioni politiche sulla nostra condotta sociale, se siamo sindacalizzati o politicizzati, se siamo inclini alla protesta o se invece accettiamo di buon grado tutto quello che ci capita.
Se, invece, è una banca che chiede informazioni su di noi, vorrà conoscere la nostra solvibilità: anch’essa vorrà conoscere il nostro reddito, se abbiamo processi di fallimento, se siamo stati protestati da qualche cliente.
Se a sbirciare nella nostra vita è magari il nostro vicino, i dati che andrà a cercare riguarderanno tutta la nostra vita, tutto quello che può essere argomento di pettegolezzo, quelli sulle tendenze sessuali per esempio. O qualunque situazione che possa rappresentare l’occasione per una “chiacchiera” più o meno infondata o un insulto nel caso litighiamo.
Dati, foto, video condivisi più o meno consapevolmente dagli stessi detentori dell’informazione.
Naturalmente alcuni dati personali, quelli di natura economica, sulle nostre abitudini o tendenze sessuali, sull’orientamento politico, quelle sul consumo fanno gola a chiunque per qualunque scopo. Così come i dati anagrafici che da soli costituiscono già una fonte di informazione.
Ecco, i dati direi che sono tutti quegli elementi che contribuiscono ad avere più informazioni possibili su di noi. E che dovremmo chiederci più spesso a chi e cosa servono.
Ma la privacy?
Rispetto alla quantità di informazioni che chiamiamo dati, nel momento in cui non sono ancora organizzati per un fine ben preciso, c’è da rilevare il ruolo che la persona ha assunto dopo la nuova legge sulla privacy; legge che, pur volendoci tutelare nella nostra intimità, ha di fatto liberalizzato il commercio dei dati, che vengono venduti e comprati in base a molteplici scopi. Infiniti.
Questo momento legislativo ha codificato definitivamente il passaggio delle persone da cittadino a “centro di consumo” di qualsiasi bene, da cittadino a consumatore dove l’identità personale viene smembrata e riassemblata continuamente, in base agli interessi, in migliaia di dati.
Bernardo Angeletti