“L’impatto più significativo del digitale rispetto alla comunicazione lo si è avuto non tanto per l’esplosione di nuovi canali, quali per esempio le piattaforme di social network, quanto per la trasformazione dell’essere umano nella sua relazione con le organizzazioni in generale. Il cittadino non rappresenta più un target da raggiungere, ma un interlocutore con il quale discutere”. Carlo Fornaro, fondatore e CEO di Brand Reporter Consulting, studio di consulenza strategica per la comunicazione d’impresa, e autore insieme a Diomira Cennamo per Hoepli di “Professione Brand Reporter. Brand Journalism e Nuovo Storytelling nell’Era Digitale”, sintetizza in questo modo il cambio di paradigma più importante della comunicazione trasformata dall’avvento del digitale.
“Il cambiamento è profondo – continua a spiegare Fornaro – ma aziende, enti, organizzazioni non ne hanno ancora piena consapevolezza e spesso continuano a rapportarsi con le persone nella vecchia maniera, quella con la quale si pubblicizzavano i propri prodotti e servizi. Un errore che spesso fanno è di parlare alle persone senza tenere conto del fatto che queste vogliono essere informate non solo su prodotti e servizi dell’azienda, ma sui temi e gli ambiti in cui l’azienda si muove e fa business e su come lo fa”.
Come il brand journalism può aiutare le imprese?
“Il brand journalism riguarda il vero storytelling, il racconto di tutte le organizzazioni, non solo delle imprese, ovvero quello che il soggetto rappresenta, i valori che incarna, il suo modo di lavorare, l’ambito in cui lavora, che deve essere sincero per diventare presupposto per il dialogo. Lo storytelling non è promozione, racconta l’impresa per quello che è e non per quello che vorrebbe essere, non usa il linguaggio della pubblicità, che è iperbole in quanto finalizzato a convincere gli altri della bontà di un prodotto o di un servizio. Questa è la nuova frontiera della comunicazione d’impresa: il cliente è qualcuno con cui si può parlare direttamente, senza necessità di intermediare attraverso giornali o campagne pubblicitarie, ma comunicando come una media company”.
Lei afferma che lo storytelling ha misurato l’incapacità delle aziende di fare racconto vero. Perché questo limite?
“Grazie alla ricerca “L’Azienda Media-Company” presentata lo scorso maggio dal nostro Osservatorio Brand Reporter Lab, i cui risultati completi, insieme a una serie di contributi di alto profilo, sono contenuti in un libro in uscita per Hoepli a febbraio, abbiamo verificato che, ad esempio, il 64% delle aziende intervistate hanno attivo almeno un canale editoriale, sono quindi interessate al brand journalism, ne comprendono il valore, ma ci sono ancora limiti che non consentono di utilizzarlo in modo strutturale. Gli imprenditori, di piccole come di grandi organizzazioni, mediamente non sono nativi digitali e spesso hanno vissuto il cambiamento come una minaccia. Un esempio lampante è quello degli editori, che non hanno visto nel digitale un’occasione per ampliare la propria audience. La difesa a oltranza della carta non ha fatto che costruire una ristretta comunità di persone che ancora comprano i quotidiani e leggono su carta, ma che sono una piccolissima parte dell’opinione pubblica, presente invece massicciamente sui social network. Una volta era la stampa a orientare le scelte dei cittadini, oggi ancora lo fa la televisione, ma se si vuole intercettare il pubblico più vasto ci si deve affacciare ai social network. Molti lo fanno, ma il modo corretto di farlo non lo hanno capito in tanti”.
Ci sono aziende, in Italia e fuori Italia, da portare come esempio di brand journalism efficace?
“Una delle migliori esperienze da poter citare è quella di General Electrics, che con la sua rivista GE Reports non parla di sé, ma del settore in cui è presente il proprio business, quello dell’energia. È diretta da un giornalista, e lo fa grazie al lavoro di giornalisti che raccontano i temi del comparto ma che non finalizzano i contenuti alla promozione dell’azienda o dei suoi prodotti, sono lì semplicemente a informare e far sì che l’azienda si posizioni su quel territorio di comunicazione. In questo caso, come nel caso di Red Bull il cui sito già anni fa è divenuto la principale rivista sugli sport estremi nel mondo, l’azienda ha fatto un passo che in Italia le imprese faticano a fare: ha smesso di parlare di sé e di quanto è brava nel fare le cose in modo pubblicitario, ed è passata a un approccio giornalistico. Se guardiamo ai siti aziendali, notiamo quanto questi siano, al contrario, luoghi di notizie che parlano della stessa impresa con un linguaggio tipicamente pubblicitario invece che giornalistico. Le aziende che hanno compreso la potenzialità del brand journalism stanno invece assumendo giornalisti, che di mestiere sanno raccontare, e vengono messi a gestire contenuti, pubblicazioni e siti con un approccio appunto giornalistico. I giornalisti non devono vendere nulla, ma raccontare storie. Purtroppo, all’interno delle nostre imprese non si è ancora compreso come rivedere l’organizzazione del personale e i processi di comunicazione ed è per questo che le esperienze italiane presentate nella ricerca, molte anche di valore, sono ancora parziali”.
Oggi si parla sempre di più anche di comunicazione “data-driven”, vista la disponibilità di dati da poter analizzare per comprendere come costruire al meglio il messaggio. Quanto le imprese sanno sfruttarne la potenzialità?
“Per comprendere quanto non solo le aziende ma anche i decisori politici non abbiano compreso le potenzialità della profilazione, basta pensare alle domande fatte a Mark Zucherberg a seguito dello scandalo Cambridge Analytica nelle due audizioni al Senato americano o presso la Commissione Europea. Tali domande hanno dimostrato quanto sia chiara per tutti l’esistenza di un problema in merito alla raccolta dati personali dei cittadini, che ha fatto del proprietario di Facebook uno degli uomini più potenti del mondo, ma quanto i decisori politici non siano preparati sul tema. In quella sede, infatti, hanno posto solo domande vaghe, generiche senza centrare il problema, alle quali il proprietario di Facebook ha risposto abilmente, uscendo con facilità dall’angolo in cui la convocazione stessa in quegli alti consessi politici sembrava lo avesse messo. Mentre ci stiamo ancora chiedendo come poter utilizzare al meglio grandi quantitativi di dati di cui le aziende potrebbero disporre o già dispongono, la politica non è in grado di studiare e mettere in campo dei correttivi rispetto alla tutela dei cittadini di fronte alla raccolta incontrollata dei loro dati personali. Un altro fenomeno evidente portato da Internet e dalle grandi quantità di dati immesse dai cittadini nel commentare fenomeni politici o politico-economici complessi è che tale enorme piattaforma di conversazione collettiva ha portato a una grande semplificazione, dando alle persone la percezione di poter commentare tutto, a prescindere dalla propria competenza e conoscenza dei problemi specifici. Ripetere ossessivamente “prima gli italiani” così fermiamo l’immigrazione africana o, dall’altra parte, “tassiamo la plastica” così salviamo il mondo, non sono che delle pericolose semplificazioni che, poggiando sulla generica percezione collettiva di temi complessi, tentano di trasformarla in consenso politico-elettorale. Oggi sarebbe assolutamente necessario un approccio serio e ampio al tema, perché se è vero che Internet rappresenta una grande rivoluzione di libertà, è anche vero che per sostenerne i vantaggi occorre comprenderne i pericoli ed essere in grado di governarli”.
Sonia Montegiove