TECH | 1 Dic 2016

Il mercato delle TLC tra attriti delle regole e corsa delle tecnologie

Intervista a Gian Paolo Balboni, strategic consultant nell’area della trasformazione digitale del mondo industriale

balboniGian Paolo Balboni, membro del panel che ha elaborato lo scenario TLC 2025, si occupa di strategic consulting nell’area della trasformazione digitale del mondo industriale. Fino a qualche mese fa ha lavorato nel Gruppo Telecom, occupandosi di ricerca e innovazione, prima in aree tecnologiche e poi in ambito strategico. Dal 2007 al 2016, come responsabile di Trend Analysis & Future Centre in ambito Strategie, ha curato le analisi delle tendenze relative all’evoluzione della tecnologia e dei servizi, a supporto degli orientamenti strategici dell’innovazione in azienda.

Il tema centrale di TLC 2025, in materie di scenario competitivo, è evidentemente quello della struttura complessiva del mercato. La ricerca 2025 delinea due grandi tendenze nel mercato europeo delle TLC: da un lato, un forte consolidamento, che porterà ad avere massimo quattro grandi operatori di livello continentale (con i player italiani destinati a occupare ruoli decisamente subalterni su questo terreno); dall’altro un forte rimescolamento dei confini fra “industry” delle TLC e industry contigue (come quella dell’It, le media company, le utility, etc.).
A fronte di queste tendenze, una questione di particolare interesse è l’atteggiamento dei regolatori pubblici, soprattutto a livello europeo: a suo avviso, sapranno accompagnare questi processi, nel corso del prossimo decennio, oppure saranno propensi a frapporre prevalentemente ostacoli?

I regolatori hanno un approccio un po’ schizofrenico: da un lato parlano della necessità di promuovere un mercato unico digitale europeo, dall’altra si pronunciano contro le fusioni che diminuiscono il numero degli operatori (come è avvenuto recentemente in Scandinavia). Anche l’operazione Wind-Tre è passata solo perché si è fatto avanti qualcuno per fare il quarto operatore. A mio avviso, quindi, manca a livello regolatorio una visione coerente. Detto questo, non è un mistero che con la Commissione Junker vi sia stato un miglioramento dei rapporti fra le Telco e l’Ue: alcuni grandi operatori, soprattutto dell’Europa Centrale, sono più “felici”, dicono che il dialogo è molto migliore, specie sulla salvaguardia degli investimenti in infrastrutture.

Per ciò che riguarda la regolazione della convergenza inter-industry, credo che il processo regolatorio resterà abbastanza indietro perché chi ne ha la competenza non sarà pronto rispetto al ritmo con cui il cambiamento avverrà. Come al solito, l’innovazione tecnologica creerà nuove condizioni di mercato più velocemente di quanto il regolatore possa recepire: ma questo è normale, non è un problema specificamente europeo. Nei prossimi dieci anni, certo, vi sarà qualche tentativo di rincorsa. D’altronde, comprendere cosa sta succedendo e cosa succederà nei prossimi anni sul piano delle trasformazioni inter-industry è oggettivamente difficile, non è una cosa banale.

A monte delle scelte regolatorie, peraltro, c’è la definizione di quale sia l’interesse in vista del quale si formulano regole, quale sia l’interesse europeo su questo terreno. È legittimo chiedersi se vi sia effettivamente un interesse complessivo dell’Unione o se piuttosto siano i singoli stati a vedere le questioni del mercato continentale dal punto di vista dei propri operatori, delle proprie industrie e poi eventualmente a influenzare le decisioni dell’Unione Europea.

Il metodo europeo per regolare le singole industry è ormai abbastanza consolidato: le linee guida e gli obiettivi li formula l’Unione e poi gli Stati li applicano – facendo più o meno attrito a seconda delle situazioni locali. Però, che vi sia una visione strategica dell’Europa sulla rivoluzione digitale a me, francamente, non sembra: almeno non una visione condivisa. Questo, naturalmente, in via generale: su alcune questioni specifiche vi sono poi iniziative di integrazione inter-industry – anche grosse, come Industria 4.0 – che però normalmente sono spinte, pungolate da singoli Paesi. Nel caso del tema che ho appena citato, si tratta della Germania.

All’ordine del giorno della regolazione europea delle Telecomunicazioni c’è la questione delle condizioni concorrenziali fra Ott e Telco, oggi fortemente sbilanciate a favore delle prime. Il rapporto, fra l’altro, prevede che la situazione sarà sostanzialmente la stessa nel 2025, poiché l’Ue non riuscirà a intervenire efficacemente su questo terreno. La questione, comunque, si porrà sia in termini di omogeneizzazione regole fiscali, sia sul terreno delle regole per la gestione dei dati personali, che vede le compagnie europee molto più vincolate rispetto a quelle operanti dall’estero e quindi meno in grado di valorizzare l’enorme patrimonio rappresentato dalla gestione di tali dati in una logica di Big Data. La previsione, dunque, non è molto gradevole per le Telco.

Sul piano fiscale la partita è sostanzialmente squilibrata, anche in funzione del modo in cui questa materia funziona a livello comunitario. Vi sono le linee guida per la fiscalità, ma non c’è una politica fiscale europea. E questo fa sì che alcuni paesi prendano iniziative di politica fiscale finalizzate a favorire investimenti che considerano strategici (il caso dell’Irlanda è uno dei più evidenti, in tal senso). La questione fiscale è oggettivamente complicata, e non solo per le Telecomunicazioni.

Altrettanto complicato è il tentativo di regolamentare il business dei Big Data. La partita sul rispetto dei dati personali è molto difficile: l’Europa può legiferare, può far partire la procedura d’infrazione, ma i tempi con cui agisce sono molto lenti, incoerenti con i tempi con cui evolve il business. E comunque mi riesce difficile pensare che si possano applicare le regole esistenti a soggetti economici globali (come Google o Facebook); tali regole, però, sono applicate fin dall’inizio ai soggetti nazionali (o comunque interni all’Unione). Quindi, l’unica maniera per rendere la partita paritetica sarebbe quella di togliere le regole alle Telco: ma questo non accadrà di sicuro. La conseguenza di questa impasse è che nel medio-lungo termine i servizi verranno sempre più offerti dagli Ott e le Telco faranno quasi soltanto infrastruttura. Non si tratterà di un processo veloce, credo che stiamo parlando di un percorso che arriverà a compimento fra il 2025 e il 2030. Ma ritengo che sia ineluttabile.

Per ciò che riguarda in particolare i Big Data, tu sei convinto che siano così oggettivi e insuperabili i vincoli cui sono soggetti gli operatori Telco, o vi sia anche un problema di ritardo, di disattenzione in confronto alle strategie degli Ott?

Si tratta di un problema generale, non solo europeo. Anche le Telco americane hanno lo stesso problema, nel rapporto con gli Ott. La differenza sta nel fatto che hanno una lobby più forte e più organizzata e quindi riescono a interloquire con il Governo e le authority degli Stati Uniti in maniera diversa, più efficace. Il fatto è che il business è nato molto più regolamentato, perché in passato era dello Stato, perché deve garantire parità di accesso a tutti i clienti, etc. Dall’altra parte, invece, c’è un business nato più di recente e che è del tutto libero.

Per ciò che riguarda una maggiore intraprendenza delle Telco sui dati di cui dispongono, magari essa è possibile in qualche “verticale” in cui i Big Data sono meno personali e più strutturali (il territorio, la produzione di beni industriali, etc.). Mi pare più difficile pensare l’utilizzo dei Big Data laddove sono in gioco i dati delle persone. Non credo che l’insieme dei vincoli oggi esistenti possa essere rimesso in discussione. E, sia chiaro, non sto dicendo che questo sia sbagliato: è bene che i dati personali siano tutelati. Però, questo oggi vale per una tipologia di player e non per l’altra.

Passiamo dalle questioni regolatorie ai fattori tecnologici. Oltre alla penetrazione, sempre più pervasiva dei servizi, anche comunicativi, degli Ott, anche l’evoluzione della tecnologia e dei modelli di business tenderà nei prossimi anni a mettere sempre più in discussione l’asset rappresentato dalle infrastrutture possedute dalle Telco: la diffusione di soluzioni tecnologiche di tipo short distance; la crescita delle tecnologie D2D, che permettono la comunicazione diretta fra i terminali senza ricorrere alla rete dell’operatore; la progressiva virtualizzazione delle architetture di rete e quindi la crescente preminenza del software.
Alla luce di queste tendenze, si prefigura il rischio che i forti investimenti in programma sul potenziamento delle reti abbiano un rendimento molto scarso, sia sul versante privato, sia su quello pubblico.

Se si ragiona con criteri d’investimento e con i costi delle infrastrutture attuali, il rischio che quell’investimento non diverrà mai remunerativo certamente c’è. Bisogna però anche considerare che i costi per realizzare le reti potranno essere nei prossimi anni abbastanza più bassi del passato, utilizzando nuove soluzioni, basate su tecnologie non tradizionali. Il costo della posa della fibra è quello: c’è poco da fare (tant’è che Google, poco tempo fa, ha annunciato che smetteva di fare i suoi servizi Google Fiber). Oggi però con il wireless, o con una combinazione di wireless e fibra, si può fare molto. Inoltre, le architetture di rete possono essere molto semplificate, così come i costi delle infrastrutture tecnologiche possono essere molto abbattuti. In questa maniera il problema finirà con lo spostarsi dai fornitori di servizi ai costruttori di telecomunicazioni tradizionali, che andranno in crisi più di quanto non siano già adesso.

D’altronde, sarà lo stesso mercato finanziario a spingere perché l’investimento si orienti verso soluzioni che danno rendimenti più a breve termine, che non richiedano immobilizzi di lungo termine. Questo tanto più in un settore, come le TLC, in cui le onde di innovazione sono così rapide da poter spiazzare investimenti che abbiano orizzonti di remunerazione troppo lunghi, facendo perdere valore. La conseguenza di questo tipo di tendenza finanziaria è che l’investimento nell’infrastruttura si finisce con il fare più per motivi strategici che non per motivi economici. Ma si tratta di un investimento che non fa certo il privato. È come nel caso delle autostrade, che furono fatte ben prima che vi fossero molte auto pronte a percorrerle e quindi una convenienza economica dell’investimento. Ma le ha fatte lo Stato.

Se l’infrastruttura tradizionale, la rete di cavi, andrà via via perdendo di importanza grazie alla diffusione delle nuove tecnologie, la questione del controllo nazionale sulla rete stessa, che si è posta soprattutto quando il controllo di Telecom Italia è stato acquisito da gruppi di altri paesi, è una questione in via di superamento?

È in parte una questione vecchia, ma solo in parte, perché resta il tema della possibilità di accedere ai contenuti della comunicazione, per motivi di sicurezza e di tipo giudiziario, ma anche per questioni strategiche, inerenti i rapporti fra Stati. Se uno Stato perde il controllo su questi aspetti, perde sovranità.

Ma se questa infrastruttura perde peso perché via via le comunicazioni passeranno anche per altri canali, come evolve la questione, dal punto di vista pubblico?

Il problema sussiste e diverrà sempre più complicato, perché diventa più difficile mantenere la capacità di controllo sia dal punto di vista tecnico, sia dal punto dei rapporti politici con i fornitori di servizio: si è visto poco tempo fa, quando la Cia ha chiesto ad Apple di avere la backdoor per poter controllare certe comunicazioni telefoniche. Ma lo Stato italiano, quali interlocutori potrà avere, visto che i produttori di dispositivi sono tutti di altri paesi? Comunque, poiché la comunicazione dovrà comunque passare attraverso qualche tipo di rete, mantenere il controllo nazionale su tale rete resterà una questione strategic.

Stefano Palumbo