“Non si può associare la parola innovazione soltanto a tecnologia. Occorre andare al cuore del problema e vedere l’innovazione come un processo che, partendo dall’analisi di contesto, aiuti a comprendere la necessità di trasformarsi e inneschi il cambiamento di modelli di business, di organizzazione e quindi di competenze delle persone coinvolte”. Roberto Panzarani, docente di “Innovation Management” presso il CRIE, Centro De Referencia Em Inteligencia Empresarial alla UFRJ, Federal University di Rio de Janeiro e autore del libro di recente pubblicazione Viaggio nell’innovazione. Dentro gli ecosistemi del cambiamento, definisce in questo modo quella che è una parola abusata.
“Occorre aiutare gli imprenditori, in particolare quelli piccoli, a sviluppare la consapevolezza di dover innovare.” – aggiunge Panzarani – “Una consapevolezza necessaria non solo a grandi realtà ma anche a negozi di piccolissime dimensioni che, per esempio, oggi devono confrontarsi con competitor che fino a qualche anno fa non avrebbero nemmeno immaginato di poter avere”.
Vista la velocità esponenziale con cui avvengono i cambiamenti e la difficoltà di percepirli, diventa fondamentale studiare in tempo utile nuovi modelli e metterli in pratica prima che le imprese soccombano. “Servono esempi -afferma Panzarani – e per questo da anni propongo veri e propri tour dell’innovazione, delle visite nei luoghi in cui gli ecosistemi sono stati creati, funzionano e cambiano in meglio i territori sui quali sorgono. Nel libro diversi sono le best practice: dalla più famosa Silicon Valley alla Chilecon Valley, dalla Israel Valley all’Indian city of Bangalore, dal Cambridge Science Park al Science Park Berlin Adlershof, solo per citarne alcuni. Il Cile, ad esempio, dopo aver compreso di non poter basare la propria economia soltanto sulla vendita di materie prime, ha investito sulla creatività e sul capitale intellettuale, prevedendo un finanziamento per tutte le start-up del mondo che vogliano insediarsi nel loro Paese. Questo significa costruire un ecosistema in grado di supportare l’innovazione di un territorio”.
Esempi di ecosistemi italiani ce ne sono?
“Tentativi italiani ci sono sicuramente, ma timidi e troppo poco numerosi rispetto alla dimensione del Paese. Manca una visione di futuro, anche per la scarsità di interlocutori competenti sul tema a livello governativo. Esempi da poter visitare, dai quali poter prendere spunto, sono l’innovation district Kilometro Rosso, vicino Milano, H-Farm di Treviso o Dallara Academy, che ha visto la costituzione di una motor valley per supportare la formazione di figure professionali nell’ingegneria meccanica attraverso l’istituzione di master e lauree specialistiche. Esempi buoni, che dimostrano come le eccellenti capacità imprenditoriali italiane possano dare vita a ecosistemi locali e a un indotto della conoscenza che portino benefici sui territori. Si dovrebbe puntare sui parchi tecnologici, rafforzare la formazione che abbiamo invece tagliato con grande danno per le imprese, e puntare sulla creatività e la conoscenza”.
Come è possibile coinvolgere le aziende di piccola e media dimensione, oggi il 98% del tessuto imprenditoriale italiano?
“Le associazioni di categoria dovrebbero lavorare soprattutto per far comprendere alle imprese come mancata innovazione significhi implosione. C’è invece nelle imprese quella che io chiamo una solitudine cognitiva, un senso di abbandono che colpisce grandi e piccoli imprenditori, che avvertono netta la sensazione di non poter contare su nessuno che possa accompagnare il cambiamento”.
Quali provvedimenti a livello governativo potrebbero supportare la nascita di ecosistemi del cambiamento?
“Devo dire di non aver visto in questi anni provvedimenti particolarmente efficaci, in quanto è mancata sia l’analisi di contesto che la capacità di importare o copiare casi d’eccellenza da altri Paesi che in questo ambito si sono mossi bene, come per esempio Germania, Svezia o Estonia. È mancata una strategia complessiva. Il tema è quello di disegnare l’economia del futuro, mentre oggi si ha la sensazione di una auto-organizzazione, dove ogni attore del possibile ecosistema si muove senza un disegno chiaro. E se fino a qualche tempo fa un atteggiamento come questo della classe dirigente poteva limitare la crescita, oggi diventa devastante per il Paese. Dobbiamo investire nella creazione del lavoro che passa dall’innovazione, non solo su provvedimenti a sostegno della mancanza di lavoro”.
Qual è il contributo dei dati alla crescita di un ecosistema d’innovazione?
“I Big Data dovrebbero essere oggi normalmente e quotidianamente utilizzati da Pubbliche Amministrazioni e aziende per prendere decisioni, cosa che invece non accade. Siamo ancorati a una forma mentis basata sul concetto di dato statistico, di report, di informazione da analizzare che influenza relativamente ciò che stiamo per fare. Questo ci porta a non sfruttare una delle potenzialità più grandi dei dati: quella di decidere al meglio conoscendo perfettamente il contesto in cui ci si muove. Il che non significa avere un data scientist per ogni azienda, ma semplicemente avere chiara l’opportunità e approvvigionarsi di informazioni per poter decidere al meglio”.
Sonia Montegiove