Di sicuro Open data è un termine sulla bocca di tutti, da molto tempo, ma è anche un fenomeno tecnologico che da noi stenta a decollare come dovrebbe. C’è da chiedersi perché e le risposte possono farci ragionare più a fondo, magari generando altre domande, anche retoriche se vogliamo. Proviamoci insieme. Ma prima di tutto facciamo una considerazione.
Occorre precisare che Open data non è soltanto un generico dato pubblicato, ma è qualcosa di più specifico. Come definito dalla Open Knowledge Foundation, “un contenuto o un dato si definisce aperto se chiunque è libero di usarlo, riusarlo, ridistribuirlo”.
Il dato aperto è infatti accompagnato sempre da una speciale licenza d’uso che autorizza espressamente le libertà suddette, ma è anche rappresentato in un formato dati aperto, è gratuito, è accessibile in modo che sia utilizzato automaticamente dai software.
Non so se questa premessa è scontata, ma è davvero molto importante.
La pubblica amministrazione italiana produce moltissimi dati e si assiste spesso ad una vera e propria corsa alla pubblicazione. Tuttavia, come ci indicano i vari “barometri” che misurano il fenomeno a livello globale, non tutti gli Open Data sono uguali, nel senso di appetibili, strategici, importanti.
Non è solo una questione di numeri, quindi, quanto di qualità dei dati pubblicati e relativa usabilità (appeal).
Ma è un problema di tecnologie?
No. Almeno non lo è più da molto tempo. I più importanti cataloghi online mondiali di Open Data sono esposti su piattaforme open source affidabili (come CKAN) e con un costo di gestione assolutamente sostenibile per la pubblica amministrazione.
Altrettante tecnologie consentono di connettere facilmente questi cataloghi alle banche dati ed agli applicativi software in uso negli uffici, anche di amministrazioni diverse, arricchendo le informazioni ed elaborandole affinché le caratteristiche di qualità del dato siano sempre rispettate (oltretutto in modalità automatica).
Nessun problema tecnologico. Allora, scaliamo il ragionamento.
È un problema di processo?
Senza dubbio sì, ma in parte.
È chiaro a tutti che i dati scaturiscano da processi che li producono. Nel caso della pubblica amministrazione, questi processi hanno a che fare con la nostra vita di cittadini. Di norma non è sufficiente rendere digitale ciò che prima era analogico, sarebbe un po’ come replicare un modello di domanda cartaceo da compilare a mano in uno elettronico da compilare al PC. È necessario piuttosto ricorrere a qualcosa di più di una “reingegnerizzazione”: i processi stessi vanno radicalmente ripensati in una chiave di lettura digitale, ovvero ripensati in origine. È il concetto di digital transformation.
Quindi, la pubblicazione del dato in questo nuovo processo non sarà un “di cui” del processo stesso, quasi fosse un passo opzionale. Ne diventa elemento obbligatorio, quasi centrale.
Ma gli uffici della pubblica amministrazione sono già pronti a tutto ciò? Con tutte le dovute distinzioni caso per caso: no.
Però, c’è da dire che sono oggetto di finanziamenti europei 2014-2020 diversi interventi sinergici di formazione, affiancamento, supporto, capacitazione, destinati alla pubblica amministrazione (e non solo). Obiettivo: accompagnare questi bistrattati dipendenti pubblici in un traghettamento che sembra senza fine, non a caso come le tecnologie, da “come eravamo” a “come saremo”.
Ammesso che fossero loro il vero orpello al decollo degli Open data, quindi, questa iniziativa aiuterà sicuramente a migliorare il quadro complessivo, ma temo che la disamina delle cause dell’attuale insuccesso non sia esaurita.
Abbiamo toccato tecnologia, dipendenti pubblici, processi. Scaliamo ancora un po’.
È solo una moda passeggera?
Siamo in parecchi ad essere convinti che qualcuno lo speri veramente.
Si assiste da tempo, infatti, ad un fenomeno chiamato open-washing, cioè l’uso dell’etichetta “OPEN” per finalità di marketing o di moda. L’apparenza rispetto alla sostanza. Pubbliche amministrazioni che non sono coerenti con i loro stessi annunci, ovvero sostanzialmente non garantiscono la qualità dei dati aperti, il loro aggiornamento, oppure semplicemente non espongono i dati in maniera opportuna, sia che ne siano destinatari diretti gli uomini (utenti) che le macchine (software).
L’Open Data, dunque, è soprattutto una scelta politica che richiede risorse, persone, investimenti, infrastrutture e buone pratiche per poter cogliere risultati a lungo termine.
Le Amministrazioni, invece, troppo spesso non garantiscono alle iniziative attendibilità, qualità e sostenibilità. Mentre gli studi e i casi di eccellenza incoraggiano viceversa un approccio organizzato, sistematico e duraturo.
Quindi è un problema di volontà?
Direi di sì, soprattutto. Argomenti come: ignoranza specifica sul tema, resistenza al cambiamento, allergia alla trasparenza, lacci e laccioli della stringente normativa sulla privacy e sul segreto statistico, malcostume del “chi me lo fa fare ad espormi” o quello del “ma tanto che glie ne frega alla gente”. Tutto questo ha indubbiamente un grosso peso sul problema ed è oggi complesso trovare una soluzione.
Sono però convinto che alla pubblica amministrazione (e non solo) sia riservato un ultimo treno, che sta passando proprio ora e poi basta, temo.
Altrettanti finanziamenti europei 2014-2020, oltre a quelli già citati sopra, ci consentono ancora di andare sui territori a parlare compiutamente di Open Data, dei vantaggi che porta, dei mercati che apre, delle opportunità concrete che si creano.
Ci consentono di aprire i servizi digitali ed i dati della pubblica amministrazione mediante interfacce standard (API), concedendo alle imprese l’opportunità tecnologica di creare nuove soluzioni avanzate e all’utente finale di migliorare la qualità della propria vita.
Consentono a pubblica amministrazione, università, impresa, enti locali, di andare nelle scuole a vedere insieme ai nostri figli cosa si può fare con il digitale, quasi per gioco, ma accompagnandoli invece verso le professioni di domani.
Ci consentono in sintesi di spostare il focus dalla tecnologia alle persone, dai server alle comunità di esperienza, alle reti di conoscenza e di scambio di buone pratiche.
E questa è una vera missione della pubblica amministrazione, se ce n’è rimasta una.
Oppure, si può continuare così come stiamo facendo, che è un po’ come dichiararsi una costante in un universo in rapida accelerazione. Mentre perdiamo ancora tempo a ragionare su cause, effetti e filosofie, facendoci sfuggire l’opportunità offerta dagli Open Data, il mondo va avanti anche senza. Come?
Big Data Analytics
Dalle nostre SIM (telefonia mobile, che in Italia sono appena il 120% della popolazione), dalle connessioni ad internet, dai sensori dell’Internet delle cose (IoT): durante ogni secondo che viviamo viene immagazzinata in giganteschi sistemi Big Data una quantità inimmaginabile di informazioni sulle nostre abitudini e sui nostri comportamenti.
Qualunque sia la lettura che vogliamo ottenere, esistono specifiche elaborazioni e filtri per ogni necessità, che ci consegnano report praticamente in tempo reale molto sofisticati ed attendibili, sia come misurazione del fenomeno trascorso che come previsione futura.
Ma mentre è chiaro a tutti l’uso a fini di business di questa nuova e potentissima tecnologia, siamo davvero pronti per una Data driven administration a fini sociali?
La pubblica amministrazione e la politica sono culturalmente pronte a misurare con tali sistemi gli effetti reali dei propri interventi sul territorio, rimodulandoli e rimisurandoli real-time quanto/quando serve per il bene dei propri cittadini?
Se la risposta fosse banalmente affermativa, probabilmente anche gli Open data sarebbero una realtà in ogni dove e la tecnologia forse tornerebbe ad essere maggiormente utile a tutti. Sicuramente più di quanto non lo sia già.
Ma non essendo proprio così, noi informatici di vecchia data diciamo scherzando “go to inizio”. Si crea un loop e si ricomincia a ragionare, mentre le lancette dell’orologio non ci aspettano.
Vi invito quindi a ritornare alla casella iniziale, ma senza passare dal via.
Andrea Castellani