I Big Data stanno influenzando molte delle decisioni d’acquisto di tecnologia delle aziende, in particolare quelle in ambito storage che, secondo una recente ricerca IDC, crescono più del 20% l’anno. Quando il dato viene creato, catturato o archiviato, infatti, deve essere analizzato o analizzabile entro il suo ciclo di vita, richiedendo piattaforme di memorizzazione adeguate.
La progressiva evoluzione dell’IT aziendale e l’incremento della quantità di dati da trattare richiedono sempre più architetture di memorizzazione scalabili, agili e on-demand, tanto che si è rilevato un maggior ricorso a tecnologie emergenti quali il software-defined storage, i sistemi flash e le infrastrutture cloud ibride.
A livello mondiale la spesa aziendale in storage per progetti Big Data è destinata a crescere con un tasso annuale medio del 22,4% fino al 2020. In particolare, questa spesa andrà a superare i 20 miliardi di dollari nel 2020. In termini di capacità consegnata, tutto questo si tradurrà in un CAGR al 2020 pari quasi al 29%, fino a superare i 92 exabyte nel 2020. Per comprendere meglio i risultati della ricerca ne abbiamo parlato con Sergio Patano, senior research and consulting manager di IDC Italia.
La ricerca evidenzia una spesa aziendale in storage legata all’aumento dell’uso dei Big Data in crescita. Quale la situazione a livello europeo e italiano?
“Per la prima volta dall’avvento dell’informatica, l’Italia non presenta un gap evolutivo rispetto agli Stati Uniti e ai Paesi dell’Europa occidentale. Terza piattaforma (cloud, big data analytics, mobile e social) e Innovation Accelerator (IoT, robotics, cogntive/AI, AR/VR, next-gen security, 3D printing) infatti presentano un livello di adozione o di previsione di adozione che risulta essere simile o di poco inferiore a quanto fatto registrare dai Paesi early adopters che solitamente adottavano tali tecnologie in largo anticipo rispetto a noi.
Anche l’Italia quindi presenta una crescita della spesa in storage fortemente legata allo sviluppo di soluzioni di Big Data e analytics. Il continuo aumento dei dati impone alle aziende una costante ricerca della giusta soluzione storage per il workload corretto tenendo ben presente le necessità legate al controllo dei costi senza però perdere di vista le esigenze di business che richiedono flessibilità, scalabilità e time-to-market spinto.
Per questo motivo le aziende oltre all’adozione di soluzioni hardware che abilitino la real time analytics dei Big Data e la riduzione dei tempi di latenza stanno orientando le proprie scelte verso memorie flash per workload specifici, investono anche in soluzioni di software defined storage stand-alone o incorporate all’interno di soluzioni convergenti e iperconvergenti per ridurre la complessità e migliorare la gestione e si rivolgono all’object storage per una migliore abilitazione di soluzioni di cloud storage pubblico e ibrido.
Tornando al mercato dei Big Data in Italia, questo è previsto crescere nel 2017 del 21% rispetto al 2016 raggiungendo un valore pari a 275 milioni di euro. La crescita sarà molto consistente anche nei prossimi anni tanto che al 2020 è previsto superare i 460 milioni di euro.“
I Big Data costituiscono sempre un valore aggiunto per le aziende? Se no perché?
“Estremizzando si può affermare che è da relativamente poco che le aziende comprendono cosa le soluzioni di Big Data possano fare per le proprie realtà. E stanno comprendendo che la loro applicazione non deve essere indirizzata solo ai workload legati all’analisi e al profiling dei clienti, piuttosto che ai dati provenienti dai social media. Sono innumerevoli infatti gli ambiti da cui trarre valore aggiunto. Solo per citarne alcuni: ottimizzazione dei processi di business; ricerca scientifica (genomics, nuclear, medical); sicurezza (crime prevention, surveillance); market intelligence (competitor/strategy analysis); demand/supply chain forecasting; optimizing manufacturing; IT monitoring/datacenter optimization; smart cities/vehicles; machine learning.“
Cloud come necessità? Quali le opportunità e i rischi per imprese e Pubblica Amministrazione?
“IDC considera il cloud come la pietra angolare su cui poggiare la trasformazione digitale: è la materia grezza alla base della trasformazione digitale stessa. Il cloud non è la panacea di tutti i mali per quanto riguarda l’evoluzione dell’infrastruttura ICT e non deve essere considerato come il killer naturale del data center aziendale. Anzi, il cloud deve essere considerato come lo strumento che meglio incarna il concetto di flessibilità e scalabilità a cui le aziende stanno mirando attraverso la digitalizzazione dei propri processi IT e di business.
Tale obiettivo tuttavia non è raggiungibile se accanto all’apertura ai servizi di cloud pubblico le aziende non portano avanti un processo evolutivo dei propri data center, che le abiliti a implementare un modello di cloud ibrido che, da un lato, consenta di cogliere i vantaggi della modalità pubblica e, dall’altro, di preservare gli investimenti effettuati fino ad oggi. Per farlo però dovranno ridisegnare la propria infrastruttura in ottica software defined, al fine di abbattere i silos infrastrutturali che hanno caratterizzato l’evoluzione del data center negli ultimi decenni, ed essere così in grado di astrarre le capacità di calcolo o di archiviazione dalla componente fisica per metterle a disposizione del business in ottica di servizio.
Le aziende inoltre sono sempre più attratte dai modelli pay-as-you-go, che consente loro un sempre maggiore spostamento dai costi da CAPEX a OPEX ma soprattutto un maggiore livello di flessibilità delle risorse in grado, in questo modo, sia di gestire con maggior flessibilità economica e infrastrutturale i picchi di lavoro attesi o inaspettati e sia di rispondere in modo più tempestivo alle richieste del business. Tale modello è talmente apprezzato che sarà il requisito fondamentale per la selezione del partner tecnologico.
La lessibilità garantita dal cloud, ed in particolare dal modello ibrido, consente alle aziende di poter anche tornare a sperimentare nuove soluzioni e nuovi modelli di business, senza la preoccupazione di importanti investimenti in termini di hardware, software e servizi di integrazione. Le aziende poi una volta che questi nuovi workload hanno raggiunto una massa critica, sono libere di scegliere dove farli risiedere se lasciarli nel cloud pubblico o migrarli in infrastrutture on-premise.
Il cloud ibrido abilita l’opportunità di poter scegliere e adottare soluzioni e offerte di più cloud services provider (CSP) a seconda delle proprie necessità, arrivando alla “costruzione” di ambienti multicloud. Per evitare però di perdere la governance dei propri asset infrastrutturali le aziende devono necessariamente stabilire SLA molto chiari con i CSP.“
Sonia Montegiove