Alla riforma del Copyright la UE lavora dal settembre 2016 e sembra si sia arrivati a un testo pressoché definitivo, adottato dalla commissione giuridica (JURI), che sarà votato in Parlamento questa settimana, il 5 luglio per l’esattezza, e che, in caso di voto contrario, vedrà aprirsi un dibattito e una votazione per emendare la posizione di JURI durante la sessione plenaria di settembre a Strasburgo.
Obiettivo del testo quello di tutelare il diritto d’autore e le opere che circolano su Internet, riconoscendo una responsabilità alle piattaforme per l’uso di contenuti protetti da Copyright. Non poche le polemiche suscitate e ampio il dibattito generato dai grandi player IT, come Google e Facebook, gli editori e le case discografiche europee, con Wikipedia Italia che ha oscurato le pagine pubblicando un appello in cui si chiede di fermare la direttiva: “Tale direttiva, se promulgata, limiterà significativamente la libertà di Internet. Anziché aggiornare le leggi sul diritto d’autore in Europa per promuovere la partecipazione di tutti alla società dell’informazione, essa minaccia la libertà online e crea ostacoli all’accesso alla Rete imponendo nuove barriere, filtri e restrizioni. Se la proposta fosse approvata, potrebbe essere impossibile condividere un articolo di giornale sui social network o trovarlo su un motore di ricerca. Wikipedia stessa rischierebbe di chiudere“.
Le reazioni, non sempre sostenute da una profonda conoscenza del provvedimento come scrive Fulvio Sarzana, dovrebbero mettere sul piatto della bilancia diversi aspetti. “Una legislazione troppo severa e troppo analogica – scrive, infatti, Sarzana – appare in grado di sfavorire la rivoluzione di Internet del valore che si sta compiendo davanti ai nostri occhi: ovvero l’uso della tecnologia blockchain ed i connessi progressi in tema di democrazia diretta“.
Cosa prevede la riforma?
I punti salienti (e più dibattuti) sono quelli contenuti negli ormai famosi articoli 11 e 13. Il primo introduce quella che è stata definita Link Tax, ovvero la necessità di prevedere un compenso per agli autori nel caso di utilizzo di un link o meglio di uno snippet, ovvero un estratto di alcune righe che anticipa un contenuto. Definizione errata quella di “tax”, come rimarcato da alcuni giuristi, in quanto non riferibile a una tassa ma al pagamento di un diritto. A prevedere la responsabilità legale per piattaforme digitali come Facebook, Instagram o Youtube l’articolo 13, che introduce la necessità di filtri capaci di individuare e bloccare il caricamento di contenuti protetti da Copyright da parte degli utenti.
Quali i limiti?
“Ancora una volta – sottolinea Stefano Epifani, presidente del Digital Transformation Institute – il diavolo si annida nei dettagli. E nell’ambito di una normativa tutto sommato ben scritta i dettagli (non proprio dettagli) sono rappresentati dagli art. 11 e 13. La Link Tax è, senza mezzi termini, una follia concettuale. L’idea che si possa tassare un link (o il suo descrittore, di fatto) mina alle basi la struttura di internet, ed al di là della difficile attuabilità nella sua formulazione originale (e dubito che nella versione definitiva qualcuno abbia il coraggio di presentarla) pone un principio contro il quale servirebbe una vera e propria levata di scudi.
Pagare per una citazione non è difendere il diritto d’autore, ma un tentativo disperato di fermare il vento con le mani da parte di una lobby che piuttosto che rendersi conto del fatto che il modo cambia spera di fermarlo a colpi di normativa. Un po’ come le Red Flag Act, che imponevano a chi entrava a Londra in automobile di esser preceduto da un “avvisante” a piedi che agitava una bandiera rossa. Per non parlare dell’accusa a Google di aver fatto lobby contro questa normativa: accusa che viene portata avanti dalla lobby che questa normativa l’ha generata.
Più complesso e spinoso il tema dell’art. 13, che si scontra come al solito con il difficilissimo confine tra protezione del diritto d’autore e censura: dare il compito di controllare i contenuti alle piattaforme ed imporre loro una risoluzione rapida delle controversie rischia di trasformarsi in uno strumento censorio preventivo che agisce per direttissima, e non possiamo permettercelo.
Il rischio è che per risolvere un problema se ne generi uno molto, molto più grande, e dobbiamo sempre ricordare che la libertà che oggi diamo per scontata è costata letteralmente lacrime e sangue: perderla è semplice. Riconquistarla molto più difficile”.
Quali le nuove libertà introdotte?
“La riforma della normativa europea sul diritto d’autore – afferma Carlo Piana, giurista esperto di diritto digitale – è nel suo complesso meritevole di attenzione, in quanto introduce alcune libertà che erano da tempo attese e già adottate quali usi liberi da parte di alcuni europei (non l’Italia). Tra di esse mi sarebbe piaciuto fosse stata inserita la libertà di panorama, ma l’emendamento è stato rigettato, mentre sono stati approvati quelli che contengono l’eccezione per la conservazione a fini di tutela del patrimonio storico e culturale (cultural heritage) e per la pubblicazione da parte delle stesse di opere orfane (ovvero non più o mai commercializzate), nonché per il text e data mining (anche se in maniera non ottimale)”.
Quale il problema legato alla introduzione dell’obbligo di filtraggio di contenuti soggetti a Copyright?
“Ci sono – continua Piana – punti molto controversi e che stravolgono in modo radicale il diritto europeo applicabile ai fornitori di servizi online. Il principale di questi punti è l’articolo 13, che impone agli operatori della rete strumenti di filtraggio di contenuti soggetti a Copyright, sulla base delle informazioni fornite dai titolari dei diritti e fornire a questi informazioni sulle opere diffuse. Il che cozza in maniera palese con il principio “no duty to monitor” della direttiva e-commerce (2001/31/EC) anche se l’emendamento di compromesso afferma che l’implementazione non dovrebbe imporre un “generalizzato” dovere di monitoraggio sui contenuti trasmessi o conservati. Ma ciò non è ovviamente sufficiente, in quanto un obbligo di filtraggio non è un un dovere “generalizzato”, ma un dovere “specifico” di monitorare.
Inoltre, c’è l’annosa questione dei controlli automatizzati in caso di utilizzi liberi. A ciò fa contraltare la proposta del secondo comma, che prevede meccanismi di risoluzione rapida delle controversie, sempre a carico dei fornitori di servizi. Ciò è un onere non indifferente a carico dei fornitori di servizio, che debbono sobbarcarsi un meccanismo molto oneroso e comunque essere esposti a contenzioso in caso i titolari dei diritti neghino che vi sia un “uso libero”. Non è difficile pensare che ciò porterà di fatto e tranne pochissimi casi la scomparsa degli usi liberi.
I fornitori di piattaforme di condivisione, nel caso abbiano accordi di licenza con i titolari, dovranno inoltre farsi carico dei costi di licenza per il materiale caricato dai propri utenti. Il che è l’esatto contrario di quanto avviene oggi per i fornitori di servizi della società dell’informazione. In caso di mancata licenza, dovrà essere apportato il filtraggio di cui ho già detto”.
E le piattaforme Open Source?
“Sul piatto positivo della bilancia – afferma Carlo Piana – almeno queste previsioni non si dovrebbero applicare alle piattaforme di sviluppo, grazie alla nuova versione dell’articolo 2 comma 4(a), che probabilmente diventerà comma 5 nella versione definitiva, che esclude appunto le piattaforme Open Source tipo GitHub, GitLab, Gitorious, BitBucket, le piattaforme di condivisione non pubbliche (tipo DropBox) e marketplace di beni fisici. Lo stesso comma esclude dall’applicazione della direttiva le enciclopedie online (dunque anche Wikipedia).
C’è tuttavia un problema più sottile. Introducendo esclusioni al dovere di filtrare, si creano semplicemente eccezioni a un principio in sé sbagliato e sovversivo, salvando alcuni (quelli che hanno fatto maggiori pressioni o la cui opposizione avrebbe causato maggiore impopolarità) a discapito di tutti gli altri. Divide et impera! Inoltre, essendo appunto un’eccezione, per di più con molte incertezze quanto alla loro applicazione, dovute all’approssimativa tecnica legislativa, la loro applicazione dovrebbe essere restrittiva. Ciò incrementerebbe una situazione di confusione e il danno all’economia digitale.
Quale la possibile motivazione dell’introduzione della “Link Tax”?
“L’articolo 11 – conclude Piana – sembrerebbe essere stato depotenziato almeno nella parte in cui ci si limiti solo a fornire link. Tuttavia la formulazione del comma 1, che prevede una “remunerazione proporzionale e giusta” per il riuso del materiale pubblicato dai media liberamente accessibili, per un periodo di cinque anni dal primo gennaio della data successiva alla pubblicazione. Una parte di questi utili dovrebbero andare agli autori. Lo scopo di questa oscura previsione (che sembra in realtà ripetere disposizioni già esistenti, anche se applicandole nel campo dei servizi “innovativi”) sembra essere quello di dare una legittimazione alle iniziative legislative già ampiamente criticate e controproducenti in Spagna e Germania”.
Per concludere
Tra gli slogan che invocano il rischio “bavaglio alla Rete”, rilanciati anche dal vice premier Di Maio, e le preoccupazioni condivise da una lunga lista di esperti tra i quali Tim Berners-Lee, resta l’incertezza dell’esito dell’operazione che probabilmente non riuscirà neppure a raggiungere l’obiettivo di tutelare gli editori. Categoria che, per non soccombere, dovrà non solo accorgersi che il mondo è cambiato ma affrettarsi a ripensare il proprio modello di business, visto che non sarà una direttiva, una legge o un provvedimento a poter fare da scialuppa di salvataggio.