“Se dovessi descrivere la mia professione, la definirei come Data-Driven Content Marketing, perché oggi il lavoro di chi si occupa di posizionamento dei contenuti, ovvero della SEO, Search Engine Optimization, è molto più che in passato guidato dai dati”. Esordisce in questo modo Matteo Borsacchi, SEO Strategist in Engineering dal 2016 e con esperienza nel settore dal 2006.
“Fare strategia SEO oggi significa analizzare enormi volumi di dati, grazie ai tanti strumenti disponibili e non immaginabili fino a qualche anno fa, con l’obiettivo di identificare bisogni informativi a cui dare risposta. Raccogliere informazioni deve aiutarci a comprendere cosa le persone stanno cercando e rispondere con contenuti originali, utili, interessanti, coinvolgenti, divertenti. Contenuti curati, insomma, e non solo tag o parole chiave ripetuti decine di volte in un testo come si era soliti fare”. Un lavoro da strateghi delle parole, da artigiani dei testi, che con sapienza cercano di comprendere i desideri delle persone, anche attraverso la ricerca delle intenzioni che si celano dietro i comportamenti in Rete, e costruiscono contenuti che possano soddisfare un’esigenza. “Se dovessi immaginare di raccontare come è avvenuta la trasformazione di questo lavoro negli anni – continua Matteo – potrei dire che si è passati dalle parole alle frasi, dalle frasi ai concetti e quindi alle persone”.
Qual è il ruolo dei motori di ricerca nel lavoro del SEO Strategist?
“Potremmo dire che il motore di ricerca è il nostro punto di riferimento. Il cambiamento della professione lo si deve soprattutto a Google che, negli anni, ha cercato di penalizzare chi cercava scorciatoie per posizionare i contenuti. L’algoritmo evolve continuamente, è trasparente, consente a chi fa questo lavoro di capire il modo migliore di posizionarsi, e poi è democratico, perché con le modifiche degli ultimi anni è riuscito in qualche modo a mettere l’utente al centro. Bisogna diffidare di chi, nel fare il SEO Strategist, promette primi posti su Google alle aziende. Oggi ciò che conta è la qualità di contenuti “personalizzati” e necessari per chi cerca: su questo ci si deve focalizzare”.
Anche la cassetta degli attrezzi di chi si occupa di SEO è cambiata nel tempo?
“Rispetto al passato abbiamo a disposizione tanti dati in più e strumenti nuovi, utili da analizzare. Se pensiamo ai forum dei primi anni 2000, possiamo avere chiara la differenza tra quanto succedeva in passato e oggi: sui forum si aveva la possibilità di studiare le opinioni e i comportamenti di un campione non rappresentativo di utenti. Oggi con Google e Facebook abbiamo dati sull’intera popolazione di utenti che utilizzano la Rete, una vera ricchezza per questo lavoro. Se pensiamo ai motori di ricerca, abbiamo a portata di mano i dati riferiti non solo al cosa si è cercato ma anche da dove nel mondo, in quale momento dell’anno e cos’altro viene cercato dalle stesse persone. Abbiamo dati veri, basta utilizzarli per produrre ciò che le persone cercano. I Big Data hanno preso il posto della vecchia reportistica che arrivava sopra la scrivania: abbiamo a disposizione un flusso continuo e in tempo reale di informazioni utili ad adattare ciò che produciamo a ciò che vuole l’utente”.
La consapevolezza delle imprese sul tema dell’essere visibili in Rete è cambiata?
“Per la mia esperienza devo dire che c’è ancora scarsa consapevolezza del lavoro da fare per posizionare correttamente le aziende in Rete. L’approccio che si ha è culturalmente sbagliato: immaginiamo che la SEO possa ingannare il motore di ricerca e trovare strade facili per il successo, mentre il percorso che si fa, finalizzato a migliorare la visibilità di un’azienda, è lungo e tiene conto di molti fattori. Servono meno furbi e più contenuti”.
Si può svolgere questo lavoro anche con un percorso di studi umanistico?
“Io sono la dimostrazione che si possono unire gli studi umanistici alla tecnologia. Mi sono laureato in scienze della comunicazione e ho avuto la fortuna di incontrare un professore di psicologia sociale che mi ha coinvolto in un percorso professionale dove l’informatica era protagonista. Per fare il SEO Strategist ci vuole passione per le parole e il desiderio di comprendere cosa vi si nasconde dietro, ovvero gli interessi e le emozioni delle persone. Questo lavoro non è un’arte, non è solo creatività, ma è molto scienza, analisi, niente improvvisazione”.
Come ci si tiene “allenati” per svolgere al meglio la professione?
“In comune con le professioni legate al settore IT, anche per questa non si può smettere mai di studiare e aggiornarsi e lo si fa leggendo magazine di settore, seguendo persone che si occupano sui social network del tema o cercando gruppi e forum in cui si discute delle ultime novità“.
Il SEO Strategist lavora in solitudine?
“L’immagine che molti hanno dei professionisti IT è quella di persone che lavorano da sole, mentre nel mio lavoro io devo collaborare praticamente con tutti: da chi gestisce l’infrastruttura di rete a chi scrive il codice, fino a chi si occupa di comunicazione. Questa è una figura trasversale in azienda, che necessariamente deve lavorare in team“.
3 libri che suggeriresti a chi vuole capire di più di questo lavoro?
“Senz’altro Language Design di Yvonne Bindi, un libro sull’usabilità del linguaggio pieno di idee intelligenti ed esempi eclettici e calzanti. Se si vuole capire meglio cosa si nasconde dietro alle semplici parole, Ricerche filosofiche di Wittgenstein. E poi più che un libro suggerirei un feed di blog del settore: Semrush, Moz, Search Engine Land, Search Engine Journal. Spesso sono essi stessi un ottimo esempio di content marketing”.