PEOPLE | 10 Mag 2018

Software libero: c’è mercato?

Intervista a Roberto Di Cosmo, direttore di IRILL, Initiative pour la Recherche et l'Innovation sur le Logiciel Libre

In Francia il mercato del software libero vale 4,5 miliardi di euro, pari al 9,9% del mercato ICT.
Quale il segreto di questo successo?

A rispondere Roberto Di Cosmo, italiano “prestato” alla Francia, informatico, laureato alla Normale di Pisa e ora direttore di IRILL, Initiative pour la Recherche et l’Innovation sur le Logiciel Libre. 

“La storia della crescita costante e rapida del mercato del software libero in Francia è cominciata circa venti anni fa, nel momento in cui il software libero faceva la sua prima transizione verso una vera adozione industriale”.

Una storia vecchia dunque che sarà spiegata nei dettagli durante due incontri, lunedì 14 e martedì 15 maggio, rivolti a Pubbliche Amministrazioni e imprese, organizzati dal Centro Nexa del Politecnico di Torino insieme a Università di Torino, Fondazione Torino Wireless, Istituto Superiore Mario Boella, CSI Piemonte e Gruppo ICT dell’Unione Industriale di Torino.

“Per quello che sembra essere un caso Francia, possiamo dire che ci siamo trovati di fronte a una combinazione di due fattori chiave: un volontarismo politico che ha fornito una spinta top-down, e un terreno fertile di competenze e implicazioni individuali che ha prodotto una vera e propria spinta bottom-up. La conseguenza è stata una crescita a due cifre che ha portato il mercato del  software libero e dei servizi associati da praticamente zero nell’anno 2000 a quasi 5 miliardi di euro nel 2018. In Italia purtroppo questa congiunzione favorevole non si è prodotta nel passato, malgrado sforzi e spunti individuali più o meno sporadici. Al di là dell’analisi delle ragioni di questa assenza, è più interessante porsi la domanda sul cosa possa fare l’Italia per recuperare il suo ritardo. Uno dei rari vantaggi di chi è in ritardo è di poter osservare quello che è stato fatto da chi è arrivato prima. Questo è lo scopo del ciclo di seminari previsti la settimana prossima al Politecnico di Torino”.

Sempre più oggi si parla di scelta di cloud sia per le PA che per le imprese. Cosa pensa di questa tendenza?

È davvero superato, come alcuni dicono, parlare di scelta di applicativi liberi?

“Uno dei vantaggi importanti del software libero è di ridare all’utilizzatore un controllo elevato sulla tecnologia e sulla sua evoluzione, grazie all’accesso al codice sorgente delle soluzioni e al suo processo di sviluppo.

Il ricorso al cloud può rimettere in questione questi vantaggi, in particolare se si scelgono delle soluzioni PaaS o SaaS su cui non si ha controllo, ma non si tratta di una fatalità: è possibile utilizzare servizi cloud con applicativi liberi a vari livelli della pila software, e mantenere quindi la libertà di scelta e il controllo della tecnologia”.

In Italia il Codice di Amministrazione Digitale dà indicazioni circa la preferenza da riservare a soluzioni libere o in riuso, ma questo non è bastato a smontare vecchi monopoli. Cosa serve allora?

Quali le best practice di migrazione che conosce alle quali potersi ispirare?

“Come insegna la storia del software libero nella Pubblica Amministrazione francese, le disposizioni legislative possono essere importanti per eliminare freni e scuse all’adozione di soluzioni basate sul software libero, ma non sono sufficienti.

Per andare oltre, è essenziale basarsi su un’approccio pragmatico che privilegia due assi importanti: la qualità del sistema informatico costruito al servizio della Pubblica Amministrazione, e la gestione del cambiamento necessario per accompagnare la transizione”.

Quale il valore dei dati oggi? Ha ancora senso parlare di Open Data?

“I dati sono importantissimi, ma con varie sfaccettature. Da un lato, c’è una volontà netta di numerosi Governi e Amministrazioni Pubbliche di fornire come Open Data le informazioni di interesse pubblico che detengono: per esempio le informazioni sulla toponomastica, la cartografia, le spese pubbliche, ma anche moltissimi altri dati, che possono essere poi utilizzati per fornire servizi a valore aggiunto ai cittadini. Citerei per l’Italia il portale dati.gov.it, in Francia il lavoro di Etalab o in Canada il lavoro del gruppo sull’Open Government. In questo contesto, il grosso lavoro che resta da fare è rendere l’Open Data utile, fornendo i dati in formati aperti, e se possibile attualizzati in tempo reale (siamo lontani dall’esserci arrivati).

Dall’altro lato, c’è il desiderio forte di molte imprese di costruirsi un insieme di dati (tutt’altro che open, in questo caso) estratti dalla massa di usi personali, con lo scopo di estrarne informazioni ad alto valore aggiunto, e il cui uso non è affatto rassicurante (vedi il caso classico di Cambridge Analytica). In tal caso, è importante che il legislatore protegga i dati personali, e la GDPR è un passo importante in questa direzione.

In mezzo, ci sono tutti i dati prodotti dalle attività di ricerca, che devono in linea di principio essere resi aperti: si tratta di ricerca pubblica nella grande maggioranza dei casi, e si tratta di rendere disponibile a tutti il risultato delle attività di ricerca.

Qui la questione è assicurarsi che questi dati non siano privatizzati, ma anche che eventuali dati sensibili non siano resi pubblici”.