“Non sono solo le tecnologie a guidare il gioco”. Non possono essere le tecnologie a definire il futuro e a plasmare la società, tanto più quando, nel post emergenza COVID-19, dovremo immaginare come e da dove ripartire. Per farlo, alcuni spunti interessanti si possono leggere dal libro “Sostenibilità digitale” di Stefano Epifani, advisor per le Nazioni Unite e presidente del Digital Transformation Institute.
Primo in Italia ad affrontare il tema della trasformazione digitale come strumento di sostenibilità, nel libro grazie alle storie di vita vissuta del medico Carla, del giornalista Valerio, della piccola imprenditrice Anna, del vivaista Domenico e del tassista Alfio si comprende non solo quanto l’impatto del digitale possa farsi sentire nelle vite lavorative e private, ma soprattutto quanto (e come) questo strumento possa essere usato per dare una forma diversa, magari migliore, al lavoro, all’economia, alla società.
Quali sono i 5 spunti di riflessione tratti dal libro da utilizzare per ripartire nel post emergenza COVID-19?
1. L’infrastruttura di Rete è condizione necessaria, non sufficiente per la sostenibilità
Lo abbiamo visto in questi giorni di smart working attivato in pochi giorni, e di didattica a distanza, diventata per insegnanti e studenti obbligatoria per poter garantire l’istruzione, quanto l’infrastruttura di Rete sia necessaria al pari dell’energia elettrica. Necessaria, non certo sufficiente, visto che insieme a questa servono mille altre cose per poter far sì che, per esempio, la didattica a distanza o lo smart working citati prima diventino opportunità. Una cosa però è certa: “La Rete è e sarà, se sapremo utilizzarla al meglio, strumento di libertà, di crescita, di benessere sociale, economico e ambientale. Ma senza la banda larga non c’è Rete e di conseguenza la possibilità di sviluppare processi di trasformazione digitale. Investire nella costruzione di infrastrutture come la fibra e il 5G rappresenta la precondizione a qualsiasi discorso inerente i vantaggi della trasformazione digitale per la sostenibilità”.
Si parte, pertanto dall’infrastruttura che quando e se non c’è esclude ragazzini dalla possibilità di istruirsi, impedisce ai lavoratori di lavorare da casa senza esporsi a inutili rischi di contagio.
“È la disponibilità di banda ad abilitare le applicazioni più evolute dell’intelligenza artificiale, grazie alle quali vedremo strumenti digitali sempre più flessibili ed efficaci affiancare gli esseri umani in molte delle loro attività, dalla guida degli autoveicoli (self driving car) alla gestione dell’energia elettrica (smart grid), dal supporto nella gestione delle operazioni chirurgiche più complesse (smart surgery) all’affiancamento ai decisori nelle scelte strategiche per il futuro di un territorio (data driven governance).”
2. L’equilibrio tra sicurezza e libertà va ricercato sempre
Se c’è qualcosa che ha insegnato la pandemia è il peso dello scegliere tra sicurezza e libertà: si è rinunciato, per esempio, alla libertà di muoversi e stare vicini alle persone alle quali vogliamo bene a favore della sicurezza e della salute pubblica. Per ciò che riguarda il digitale, è argomento di dibattito la possibilità di utilizzare il contact-tracing, ovvero il tracciamento degli utenti a mezzo smartphone, per avvisare le persone che sono entrate a contatto con altre risultate contagiate da COVID-19. Una scelta apparentemente semplice se ci si pone la domanda sbagliata, ovvero: preferisci morire o rinunciare alla tua libertà e consentire alle autorità forme di sorveglianza puntuali? Ecco, allora, che torna la necessità di porsi le domande giuste e riflettere sul modello di società che si vuole costruire.
“Se la distinzione tra reale e virtuale è, forse, destinata a scomparire, non si può dire lo stesso per quella tra sicurezza e libertà. È in nome di questa scelta, infatti, che rispetto al ruolo delle tecnologie nella società, e al modo in cui esse dovranno o potranno svilupparsi, verranno prese le decisioni che impatteranno maggiormente sulla vita delle persone e dei popoli. Il bilanciamento è tutt’altro che semplice”.
3. La privacy non è qualcosa a cui rinunciare, nemmeno in emergenza
Perdere il diritto all’anonimato, come si rischia di fare oggi in nome della salute pubblica per esempio, non solo potrebbe non rappresentare una soluzione al problema contagio, ma “porrebbe l’utente di fronte a una situazione per la quale la schedatura di massa equivarrebbe a imporre a ogni passante che cammina per strada la necessità di dotarsi di una targa di riconoscimento pubblica. Ciò renderebbe le città più sicure? Improbabile. Creerebbe città popolate da cittadini meno liberi. E, in questo discorso, non si stanno prendendo in considerazione i rischi ai quali si sottoporrebbe il cittadino nel cedere i suoi dati. Rischi generalizzati nel caso della loro gestione commerciale, ma anche molto concreti nel caso di situazioni specifiche. Si pensi, per esempio, a cosa succederebbe se vi fossero – è già successo – perdite di dati dovute ad azioni di hacking o semplici errori di chi li gestisce: cosa sarebbe delle vittime di stalking, raggiungibili dai loro stalker, e cosa sarebbe di chi, per mille e leciti motivi, non vuole render note informazioni sulla propria vita, sulla propria abitazione, sui propri contatti?”.
Agire in emergenza, senza riflettere sulle conseguenze di scelte prese senza ponderare bene ogni aspetto significherebbe proprio andare incontro a un rischio spiegato bene nel libro di Epifani: “Abdicare alla libertà in nome della sicurezza rischia di trasformare la Rete da grande strumento di libertà in portentoso strumento di repressione. È quello che accade in Cina, ove vige un meccanismo di social scoring sulla base del quale ogni utente ha un punteggio che dipende dal suo comportamento on-line e off-line, comportamento che viene tracciato in ogni attività della sua vita”. Ecco, perché, anche in emergenza occorre chiedersi se è davvero questa la società che vogliamo costruire.
4. Si può chiudere il capitolo del capitalismo di sorveglianza per dirigersi verso il cooperativismo di piattaforma
Viviamo già oggi nella società delle piattaforme. Ogni nostra preferenza, ogni spostamento, ogni like è non solo tracciato ma utilizzato per “personalizzare” proposte commerciali e informative.
“Viviamo nell’era dell’internet delle cose e dell’intelligenza artificiale, nella confluenza tra social network e big data, con miliardi di oggetti connessi che parlano tra loro e con noi e che sono gestiti da un numero ridotto di attori: le piattaforme. Piattaforme che basano il loro modello di business sulla profonda conoscenza delle caratteristiche, dei gusti, delle scelte delle persone che le utilizzano. Quale dovrà essere il giusto bilanciamento tra la possibilità dell’utente di mantenere la sua privacy e quella degli operatori di utilizzare le informazioni che esso quotidianamente produce per accedere a servizi solo apparentemente gratuiti, ma che vengono pagati con il valore dei suoi dati di chi li usa? Nella costruzione di un modello economico e sociale che sia basato su principi di sostenibilità, quale deve essere il limite tra tutela della privacy e possibilità di accesso a un ecosistema di servizi sempre più intrinsecamente connesso alla gestione della quotidianità?”
Un’alternativa al “capitalismo di sorveglianza” ovviamente c’è. “La dicotomia tra controllo e privacy potrebbe evolvere in una più complessa realtà basata sul controllo della privacy. Una realtà nella quale gli utenti potrebbero decidere quali dati distribuire, a chi, e in che modo. E potrebbero persino trarre valore loro per primi da tali dati. È il cooperativismo di piattaforma, che si contrappone al capitalismo di sorveglianza mettendo l’utente al centro, tanto del processo di creazione del valore, quanto del suo modello di valorizzazione. Un modello che sostituisce al processo di controllo strutturale attuato dalle piattaforme un modello di gestione cooperativa dei dati realizzata non escludendo i loro produttori – gli utenti stessi – dalla fase di valorizzazione”.
5. Si può ripartire dall’economia circolare digitale
Qualcuno sta già sostenendo con forza che niente sarà più come prima della pandemia. In primo luogo perché occorrerà abbandonare il modello di economia al quale ci si è ispirati finora. E una possibile scelta potrebbe essere quella di guardare a un’economia basata sul consumo e non sull’oggetto.
“Ragionare in termini di consumo piuttosto che di possesso, infatti, abitua tanto il cliente quanto le aziende, tanto il cittadino quanto le istituzioni, a pensare in termini di proprietà condivisa, e con essa – allo stesso modo – di responsabilità condivisa delle risorse che si gestiscono. Sharing economy è anche shared responsibility, quindi. E questo fattore può rappresentare un grande abilitatore di processi orientati all’economia circolare. Il concetto di consumo, infatti, in potenza esclude il principio di possesso e può attivare un percorso finalizzato alla percezione concreta della responsabilità condivisa del prodotto, in tutte le fasi del suo ciclo di vita. Ciò vuol dire che la vita dei prodotti potrà essere gestita indipendentemente da chi li sta usando in un determinato momento, e da chi ne ha realizzato i singoli componenti. Ciò fa sì, per esempio, che la plastica con la quale è prodotto un oggetto possa continuare a riguardare tanto il produttore della plastica quanto quello dell’oggetto che la utilizza e dell’utente che usa l’oggetto. E questo può voler dire che il riciclaggio della stessa possa non esser più un problema a carico del solo ultimo anello della catena, ma di tutti coloro i quali della catena hanno fatto parte. Ciò è possibile grazie al ricorso a tecnologie come la blockchain: “tokenizzare” le materie prime e le materie prime seconde consente di abilitare percorsi concreti di economia circolare, anche grazie a logiche di condivisione della responsabilità”.
“Il passaggio da modelli basati sul possesso degli oggetti a quelli basati sul consumo degli stessi è un processo di ottimizzazione del costo, produce un minor impatto sull’ambiente, migliora il rapporto tra efficienza ed efficacia dei prodotti. È fondamentale inquadrare il tema, definirne i contorni interpretativi e supportarne lo sviluppo”.
Si può ripartire, già adesso, dalla sostenibilità digitale.
Sonia Montegiove