La prima volta che ho sentito menzionare il concetto di “Wikipedia delle cose” è stato nel 2013, durante il TED talk “Architecture for the people by the people” di Alastair Parvin, il quale, per sostenere i principi alla base del proprio progetto WikiHouse, quindi la visione di un’urbanizzazione finalmente aperta, condivisa e collaborativa, ragionava sulla straordinaria opportunità che la democratizzazione della manifattura (che stiamo vivendo grazie ad internet, alla cultura nata dal Software Libero, dall’Open Hardware e dal movimento maker, e alle tecnologie di fabbricazione digitale libere da brevetto) ci offre. Poter sperimentare nuovi modelli di sviluppo, elevando i cittadini da semplici consumatori a collettività in grado di affrontare i più urgenti problemi infrastrutturali di questo 21° secolo, sviluppando soluzioni Open Source, Low-Cost, High-Efficiency, che chiunque possa replicare ed adattare alle proprie esigenze, creando una “Wikipedia of stuff” accessibile a tutti.
Uno scenario davvero dirompente, ma oggi siamo davvero così distanti dal realizzarlo?
Internet è già ricchissimo di “cose” sotto forma di dati liberamente accessibili (formati aperti o di interscambio) ed utilizzabili (licenze Open Source): i modelli 3D di portali come Thingiverse, Youmagine o Repables, le istruzioni di portali come Instructables, Appropedia o Hackaday, gli ormai tantissimi progetti Open Hardware (Wikipedia ne riporta una nutrita lista) o i sempre più numerosi progetti di Open Manufacturing (che stiamo raccontando su Tech Economy sull’omonima rubrica). Parliamo di un patrimonio che va dall’oggettistica a piccoli e grandi macchinari, attrezzature, vestiti, giochi, elementi di arredo, abitazioni, veicoli, schede elettroniche, computer, ma anche processi, tecnologie e know-how. Linus Torvalds, il papà del kernel Linux, ha coniato il termine “lazy like a fox“, invitando a risolvere i problemi non reinventando ogni volta la ruota, bensì applicando, se possibile, soluzioni già collaudate, questo patrimonio può essere quindi visto come il punto di partenza di una vasta gamma di produzioni.
Il vecchio continente, in particolare l’Italia, non è né conscio, né culturalmente pronto (troppo poco umile e trincerato dietro le proprie “eccellenze”), ma molti paesi emergenti (o semplicemente più furbi) stanno già sfruttando questa enorme banca dati diffusa. Allora accade che ad esempio in Perù sia possibile progettare un piccolo escavatore Open Source di nome “Boa” a partire dai dati condivisi da Open Source Ecology, oppure possiamo vedere come il set di macchine ideato dall’iniziativa Precious Plastic di Dave Hakkens venga replicato in modo differente in giro per il mondo, dall’Indonesia all’Ucraina, dal Sud Africa alla Cambodia, a seconda della disponibilità (e della convenienza) di componenti in quel dato luogo, oppure possiamo vedere quante piccole aziende possono realizzare differenti tipi di veicoli, dalla citycar alla piccola sportiva, dal trasporto di persone a quello delle merci, tutti a partire dalla stessa piattaforma modulare OSVehicle.
Questi dati, ma soprattutto la cultura che li rende disponibili, sono come la scintilla del Big Bang e la loro disponibilità spinge la creazione di piattaforme di condivisione sempre più accessibili ed efficienti e strumenti per la loro manipolazione sempre più facili e potenti (basta vedere la crescita esponenziale di piattaforme di modellazione comunitarie come FreeCAD), è una “reazione a catena” virtuosa.
La condivisione crea innegabilmente economia, benessere e rigenerazione sociale (sentirsi una comunità), ma ci risulta difficile da innescare perché, per una volta, bisogna puntare sull’umanità piuttosto che sulle macchine.
Giovanni Longo